L’Armenia imbarazza Vladimir Putin e mina l’immagine monolitica del «blocco multipolare» di cui la Russia sarebbe la guida. La crisi diplomatica tra i due paesi è infatti più profonda di quanto appaia e rappresenta un duro colpo per i teorici del multipolarismo in salsa russa, gli stessi secondo i quali a un Occidente corrotto e asservito agli Stati Uniti si contrappone un mondo libero popolato da Stati indipendenti uniti da una missione comune. Ma la semplificazione, si sa, è un’arma a doppio taglio. Poche settimane fa, l’esercito russo ha rapito un uomo, Anatoly Shchetin, colpevole di aver disertato l’arruolamento coatto per l’Ucraina. Shchetin è stato prelevato a Gyumri, in Armenia, dove è stato tenuto in custodia presso una base russa prima di essere trasferito nella Federazione.
Come spiegato da Anastasia Burakova, avvocato della Helsinki Citizens’ Assembly (Hca), la Russia avrebbe dovuto seguire il protocollo ufficiale prima di condurre un’operazione del genere, inviando una richiesta formale di estradizione alle forze dell’ordine armene che, qualora avessero accettato, avrebbero dovuto provvedere all’arresto e alla detenzione del sospettato. Invece, «ancora una volta», afferma Burakova, «le forze armate russe hanno violato la legge rapendo una persona in territorio armeno per poi imprigionarlo illegalmente».
Quello di Schchetin non è un episodio isolato, come testimonia l’arresto del dicembre scorso di Dmitry Setrakov, altro coscritto russo catturato e imprigionato sempre in Armenia. L’arresto di Setrakov era stato il primo e unico caso e il suo impatto era stato tale da spingere il primo ministro armeno, Nikol Pashinyan, a dichiarare che l’episodio aveva «enormemente preoccupato» il suo governo. Ora i casi sono diventati due nel giro di pochi mesi, e Yerevan inizia a lamentare esplicitamente il malcontento per le continue violazioni della sua sovranità nazionale da parte del Cremlino.
La situazione è sintomo dei rapporti in picchiata tra Armenia e Russia, che dalla dissoluzione dell’Unione Sovietica, erano sempre stati forti anche grazie al ruolo che Mosca aveva ricoperto nella prima guerra del Nagorno-Karabakh, vinta da Yerevan. Anni dopo, in una fase estremamente delicata della diplomazia internazionale, l’Armenia deve scegliere se entrare nell’Unione doganale eurasiatica, il tentativo putiniano di riunire i paesi ex sovietici in un’unica alleanza economica, o se procedere con l’Association Agreement (Aa) dell’Unione Europea, primo passo verso una collaborazione sempre più stretta con l’Europa. È il 2013 e in quel periodo prevale la linea filorussa: l’Aa viene stracciato e Yerevan entra nell’Unione putiniana, il che porterà il Paese, due anni dopo, a diventare membro della più ambiziosa Unione economica eurasiatica (Uee). Il Cremlino apprezza la scelta e ripaga il governo amico offrendo prezzi agevolati per il gas.
Ma il 2015, lo stesso anno dell’ingresso nell’Uee dell’Armenia, segna l’inizio della fine dell’idillio tra i due Paesi. A far scattare la prima vera crisi è il massacro di Gyumri. Valery Permyakov, soldato della centoduesima base militare russa – la stessa dove settimane fa è stato detenuto Shchetin – uccide una famiglia armena, facendo sette morti. Permyakov deve essere processato dal sistema giudiziario armeno ma i russi lo trattengono all’interno della base, provocando un’indignazione generale: scoppiano proteste a Gyumri e nella capitale, dove venti persone vengono arrestate durante gli scontri con la polizia.
Dopo un controverso iter giudiziario (i russi avevano inizialmente escluso l’accusa di omicidio) la questione si chiude. Nel 2018, però, sale al potere l’attuale premier armeno Nikol Pashinyan che, pur mantenendo il suo governo all’interno della sfera d’influenza del Cremlino, appare agli occhi degli alleati troppo morbido verso l’Occidente, e il sospetto che Yerevan possa anche solo tentare un dialogo con l’Europa dà il via a una campagna diffamatoria da parte dei media russi in cui Pashinyan viene paragonato all’allora presidente ucraino Petro Poroshenko.
Le tensioni continuano a fasi alterne e peggiorano drasticamente due anni fa, allo scoppiare dei primi scontri armati tra Armenia e Azerbaijan. L’Armenia fa parte dell’Organizzazione del trattato di sicurezza collettiva (Otsc), spesso definita la «Nato russa»: una coalizione militare che riunisce alcuni dei paesi dell’ex Unione Sovietica. L’atteggiamento ambiguo dell’alleanza durante i due giorni di battaglia fa infuriare Yerevan, che minaccia l’uscita dall’organizzazione e un riallineamento del paese con la Nato.
Si tratta di un affronto imperdonabile per Vladimir Putin che però non può permettersi manovre militari in Armenia poiché da pochi mesi è iniziata «l’operazione speciale» in Ucraina, e attaccare frontalmente un alleato porterebbe a un danno d’immagine troppo grande. Si cerca quindi una soluzione diplomatica, ma l’Armenia guadagna solo promesse non mantenute. Con l’offensiva azera dell’anno scorso e il mancato intervento della Russia e dei suoi alleati l’Armenia annuncia infine l’autosospensione dall’Otsc: il fiore all’occhiello della propaganda putiniana, la personalissima Nato dello zar, si sfascia.
Pochi giorni fa, Pashinyan si è rivolto all’Iran spiegando al regime dell’Ayatollah che «Teheran non deve temere i rapporti tra Armenia e Occidente». Forse Teheran no, ma Mosca sì. Il primo ministro armeno ha di fatto avviato un percorso che, per quanto non privo di ambiguità, sta forgiando un rapporto inedito tra il suo governo e gli epigoni occidentali.
Lo scorso ottobre l’Armenia ha firmato degli accordi bilaterali di difesa con India e Francia, e con quest’ultima ha anche concordato l’acquisto di radar ed equipaggiamenti difensivi. L’Unione Europea sta discutendo in questo periodo la possibilità di avviare il percorso per la candidatura dell’Armenia come nuovo membro Ue, una svolta che richiede prudenza e che ha spinto Pashinyan a parlare di un possibile referendum sulla questione perché «la scelta di entrare nell’Ue spetta ai cittadini e non al governo».
Il ministro degli Esteri armeno Ararat Mirzoyan ha poi parlato apertamente della volontà del Paese di aprire nuovi scenari in politica estera e di diversificare le proprie alleanze. Diversificazione che è facilitata, secondo diversi opinionisti, dalla guerra in Ucraina: la Russia è impegnata al fronte e questo significa libertà di movimento per i suoi (ex) alleati. Prima sono arrivati segnali simbolici – il più pesante è forse la visita a Kyjiv della first lady armena Anna Vachiki Hakobyan –, poi si è iniziato a parlare di accordi e, per quanto non si possano fare previsioni affrettate, adesso appare innegabile che qualcosa di importante sta per accadere a Est. Il mondo multipolare, quello vero, sta prendendo forma, con buona pace dei nostri analisti geopolitici.