Il destino dell’inconscio sarà eguale a quello dei dinosauri? Potrebbe, l’inconscio, andare incontro a una fatale estinzione? E la psicoanalisi? Non è forse oggi minacciata davvero dal rischio di scomparire per sempre? E gli psicoanalisti? Quale sarebbe la loro responsabilità per questa estinzione? Insomma, quale sarà l’avvenire della psicoanalisi nella nostra civiltà? Quale sarà, cioè, la possibilità per il soggetto dell’inconscio di continuare a esistere?
Pongo queste domande in una forma volutamente estrema e paradossale – inutile ricordare che tra un dinosauro e l’inconscio passa una certa differenza –, per andare immediatamente al contenuto di questo libro. Si tratta dell’elogio appassionato di uno psicoanalista nei confronti di quel particolare oggetto – l’inconscio – che oggetto non è, nel senso che non risponde alla nozione empirica di oggetto, e che costituisce il centro dell’attività teorica e clinica della psicoanalisi.
È vero, in questi due ultimi decenni la stella della psicoanalisi, che ha conosciuto il suo massimo splendore dopo la contestazione del Sessantotto, negli anni Settanta-Ottanta, sembra davvero destinata a un avvenire piuttosto incerto. La comparsa di psicofarmaci sempre più potenti ed efficaci nel trattamento della sofferenza cosiddetta «mentale», la diffusione delle terapie cognitivo-comportamentali, i progressi delle neuroscienze, l’invasione di una cultura psicologica generica sono solo alcuni tra i fenomeni che sembrano condannare la psicoanalisi a non essere altro che un residuo d’archivio dell’Ottocento.
Questo libro vuole invece ricordare che la psicoanalisi è più che una terapia, e che la sua difesa non è solo una difesa corporativa di un ceto professionale in crisi. La difesa della psicoanalisi è la difesa di un’etica della responsabilità e di una teoria critica della società di cui ancora oggi abbiamo un grande bisogno. Tale è, molto in sintesi, la posta in gioco di questo piccolo libro: elogiare gli elementi a mio giudizio cruciali dell’esperienza analitica, difendere la sua causa, che non è solo la causa della psicoanalisi in senso stretto, ma coinvolge anche una intera concezione dell’uomo che si sostiene sull’importanza del pensiero critico e sul carattere particolare e incommensurabile del desiderio soggettivo.
Agli interrogativi sull’estinzione della psicoanalisi e del suo oggetto, nel libro se ne aggiungono altri che sono relativi agli effetti di questa eventuale estinzione. Quale genere di catastrofe antropologica comporterebbe l’estinzione dell’inconscio? O, in termini meno enfatici e meno drammatici, cosa sarebbe, cosa diventerebbe un uomo senza inconscio? Di fronte a quale forma di mutazione mentale ci ritroveremmo? Che cosa sarebbe un uomo, o, se volete, più radicalmente, l’uomo, se l’inconscio si estinguesse? Forse potremmo trovare le sue versioni più terribili e tristi nelle figure del tiranno o del burocrate? O in quella più efficiente e disumana della macchina?
Il tiranno, il burocrate e la macchina hanno, in effetti, in comune l’assenza di desiderio. Forse un uomo senza inconscio sarebbe davvero l’incarnazione di un uomo grigio incapace di sogno, dunque di desiderio. Un uomo senza inconscio sarebbe l’uomo ridotto a una macchina senza desiderio? Non c’è, in effetti, per la psicoanalisi malattia più terribile che questa: vivere senza avere accesso al proprio desiderio.
Il compito della psicoanalisi e, soprattutto, degli psicoanalisti è innanzitutto quello di difendere l’esistenza dell’inconscio da ciò che ne minaccia l’estinzione. Lo psicoanalista, secondo Lacan, fa parte del concetto di inconscio, nel senso che permette al soggetto di fare esperienza dell’inconscio, del suo inconscio. Non si tratta semplicemente di difendere l’esistenza della psicoanalisi, ma quella dell’inconscio come indice del carattere irriducibile della particolarità del soggetto che invece lo scientismo contemporaneo vorrebbe poter liquidare.
“Elogio dell’inconscio. Come fare amicizia con il proprio peggio” (Castelvecchi editore), Massimo Recalcati, 2024, pp. 144, € 17,50