È l’unico fagiolo autoctono, che non è arrivato dalle Americhe, portato da esploratori e mercanti, ma è nato nel Vecchio Mondo; infatti, è originario dell’Asia e dell’Africa, dove è utilizzato in alcuni piatti tipici, e solo con la tratta degli schiavi si è diffuso nel Sud degli Stati Uniti dove, come le nostre lenticchie, è mangiato per consuetudine all’inizio dell’anno come portafortuna. Un’usanza che pare nasca dal fatto che veniva servito agli schiavi in quel giorno e spesso era il preludio alla loro liberazione.
Conosciuto già dagli antichi Greci e dai Romani, durante il Medioevo era molto diffuso in Italia, nell’area del Mediterraneo e in molte zone dell’Europa perché costituiva una delle principali fonti di proteine delle classi povere. Tanto che la specie rientra tra quelle raccomandate da Carlo Magno nel “Capitulare de villis”, il “Decreto sulle ville”, emanato negli ultimi anni del suo regno per disciplinare le attività rurali, agricole e commerciali delle aziende agricole dell’impero, dette appunto ville.
Si ritiene che le forme coltivate, derivate dalle forme selvatiche annuali, siano apparse in Africa occidentale già nel 2000 a.C., dove venivano usate sia come foraggio sia come pianta tessile. Per poi diffondersi intorno al 1500-1000 a.C. in India, e in Cina. In Europa, le varietà coltivate sono note almeno dal 300 a.C.
Dopo un passato così antico e importante, oggi il fagiolino – ma sarebbe più corretto chiamarlo fagiolo – dall’occhio, detto così per via della macchiolina nera attorno al punto in cui si attacca al baccello, è invece sempre meno presente sulle tavole, rispetto anche solo a qualche decennio fa, quando era il classico fagiolo dell’orto di campagna; attualmente in Italia è coltivato solo in alcune zone di Puglia, Toscana, Piemonte e Veneto. Un lento declino, iniziato in realtà con l’arrivo dei diversi tipi di fagioli dal Nuovo Mondo, dopo la scoperta dell’America.
Impossibile trovare i fagioli dall’occhio inscatolati, come i borlotti o i bianchi di Spagna: sono un prodotto di nicchia, da bottega o da erboristeria, che richiamano gesti antichi, come metterli a bagno per una dozzina di ore prima di farli cuocere. Ma vale la pena cercarli – il periodo di raccolta è da luglio a settembre, essiccati si trovano tutto l’anno – perché sono un concentrato di sapore ed elementi nutrienti.
Come i loro parenti borlotti, sono ricchi di proteine (allo stato secco ne contengono circa il 23 per cento), ma anche di minerali come ferro, magnesio, potassio, calcio, zinco e selenio, e di vitamine, tra cui la A, la C e il gruppo B. Inoltre, possiedono il 18 per cento di fibre e questo li rende perfetti per la dieta dato contribuiscono ad aumentare il senso di sazietà, oltre ad avere effetti positivi su eventuali problemi intestinali. In più sono ipocalorici e contengono pochi grassi. Inoltre, sono un alimento a basso indice glicemico ovvero aiutano a mantenere lo zucchero nel sangue a livelli ottimali e, come gli altri fagioli, contribuiscono a tenere a bada il colesterolo.
Il loro impiego in cucina comprende sia i semi, freschi o secchi, sia i baccelli: si consumano lessati e conditi con olio extravergine d’oliva, sale, aceto o limone, aggiungendo a piacere prezzemolo tritato. Sono ottimi anche in umido, cotti con olio extravergine d’oliva, aglio e prezzemolo, con o senza pomodoro. E si possono anche utilizzare, allo stesso modo degli asparagi, per preparare un buonissimo risotto o una versione originale della classica pasta e fagioli. Dopo una breve scottatura in acqua bollente, si possono conservare anche in congelatore.
Ma le storie, e le ricette, più affascinanti sui fagiolini dall’occhio arrivano dal loro continente d’origine: in tutta l’Africa occidentale, infatti, sono l’alimento base di molte etnie. Schiacciati nel mortaio e ridotti in purè servono a preparare polpettine di alto valore energetico e, intorno al loro consumo, si sono diffusi credenze, ritualità e tabù. Spesso discordanti: per alcune etnie sono simbolo di fertilità, elementi augurali di buon auspicio, al punto di entrare come decorazione negli amuleti. Per altri sono portatori di malocchio, e per questo vengono privati della buccia prima di essere cucinati e consumati.
In America Latina per le comunità Yoruba rappresentano uno dei cibi preferiti delle divinità Orisha. La dea Yemaya, ad esempio, madre di tutti gli Orisha, si nutrirebbe esclusivamente di black eyed peas (sì, è anche il nome di un gruppo hip hop di Los Angeles), angurie e maiale fritto.