La storia dei blue jeans in Italia significa e rappresenta molte cose: parla del secondo dopoguerra, di pace e libertà, dei riferimenti culturali, visivi, artistici, musicali, cinematografici che provenivano dal mondo anglosassone e soprattutto americano. Un vero e proprio life style nuovo di zecca importato qui. E in un certo senso sempiterno. Al MUDEC di Milano, in occasione della settimana del design, chi se non Levi’s poteva presentare un percorso espositivo di capi d’archivio, intitolato Icons, innovations and Firsts?
Servirebbe, forse, al giorno d’oggi, ripercorrere la storia dell’indumento più indossato al mondo il quale, proprio perché così trasversale, corre il rischio di essere frainteso, come accade ad Einstein nel mondo della fisica quantistica, a Verga in ambito letterario, a Sergio Leone per il cinema. Eterni, impossibili da sostituire, riproposti sempre, a tutte le generazioni, e per questo esposti a continue rivalutazioni, interferenze, dati per scontato, dileggiati, venduti, imprestati, contaminati da inedite posizioni new age.
Ad esempio, chi sa che il primo jeans Levi’s fu brevettato nel 1873, il 20 maggio per la precisione, grazie a un sarto di nome Jacob Davis, che aggiunse rivetti alle tasche dei pantaloni da lavoro e li propose il suo fornitore di merci, Levi Strauss? E che la prima produzione firmata Levi’s consisteva in una serie di salopette con rivetti, identificate da quella che diventerà la cifra antonomastica del marchio: 501?
Se una volta erano considerati il veicolo di una conquista sociale, di una realizzazione di classe oggi che cosa vogliono dire? Com’è invecchiato il denim? Senz’altro il mito ugualitario ha funzionato e ha anche mostrato tutti i suoi limiti, le sue crepe, le sue contraddizioni: nessuno può dire di non avere almeno un paio di jeans all’interno dell’armadio e sarà senz’altro vero che prevengono e abbattono le differenze economiche, ma è pur vero che la fast fashion ha contenuto in se stessa un alto prezzo da pagare. Senza considerare che le mode e i costumi corrono più velocemente di noi e i jeans sono stati decostruiti da una semantica sempre in via di aggiornamento: non si possono indossare ovunque, all’interno di certe nicchie di autentici privilegiati sono considerati troppo sportivi e c’è anche chi ha smesso d’indossarli perché richiedono un dispendio ambientale troppo elevato.
«È emozionante celebrare l’impatto di Levi’s sul design e sulla cultura negli ultimi centocinquant’anni e farlo presso un’istituzione come il MUDEC, con la sua impressionante reputazione, è incredibilmente simbolico», ha dichiarato la curatrice della mostra Tracey Panek. Tre sono le aree, i capitoli che costituiscono l’esposizione: ICONS esplora pezzi indossati o interpretati da personalità iconiche del Novecento, come la giacca in pelle “Menlo Cossack” di Einstein o i jeans realizzati in collaborazione con la Warhol Factory, decorati dagli schizzi a opera di Andy Warhol.
INNOVATIONS espone pezzi futuristici, all’avanguardia caratterizzati da risorse sostenibili e tecnologie avanzate. FIRSTS illustra i primissimi modelli, quelli che davvero mostrano da dove il marchio è partito, indossati rispettivamente da un minatore, da un cowboy e da una giovane donna che frequentava il college all’inizio degli anni Trenta, probabilmente una delle prime della storia. Un pezzo in particolare ha ancora su di sé le colate di cera di un minatore che aveva intorno alla testa una fascia con dentro una candela per orientarsi al buio.