Fotocellule dormientiI ladri in casa, il disordine antifurto e certe cose che non cambiano mai

Solo con l’esperienza di diversi furti nei palazzi in cui ho abitato, ho capito che non si trattava di ordinaria amministrazione. Tranne a Roma, dove se questi signori non ti entrano in appartamento ti devi offendere

Cecilia Fabiano / LaPresse

C’è stata la volta in cui ero a Londra, ripartita dopo esserne appena tornata. Nell’ingresso avevo mollato i sacchetti degli acquisti, e al ritorno erano vuoti. Avevo preso un aereo di gran fretta dopo una telefonata della portinaia: ti hanno scassinato la porta.

Col senno di poi, mirabile che se ne fosse accorta, considerato che era sempre al bar o a farsi le unghie. Col senno di poi, evidente che le Manolo Blahnik dai sacchetti le aveva arraffate lei: se tanto ormai hai dei ladri cui dare la colpa e una porta scassinata, tanto vale.

Che i ladri non fossero modaioli l’avevo capito appena entrata in casa, precipitandomi a controllare che nell’armadio ci fosse la costosissima gonna ricamata di Prada che non avevo mai messo allora e non ho mai messo nei vent’anni successivi.

Non gli era sembrato ci fosse niente di rubabile, tranne la macchina Illy per l’espresso, comprata dopo averla vista uguale in “Will and Grace” (a trent’anni si è stupide davvero). L’avevano portata dalla cucina all’ingresso, poi dovevano essersi accorti che pesava troppo, e l’avevano mollata lì.

Anni prima c’era stata la volta in cui, svegliandomi da una pennichella il sabato pomeriggio, avevo visto un tizio aggirarsi, scrivendo immediatamente un capitolo della mia leggenda privata: alzarmi di scatto, accorgermi che ero nuda, avvolgermi in coperta peruviana regalo d’amica fricchettona, inseguirlo mentre quello scappava. I venticinque anni successivi li ho trascorsi a chiedermi che cosa poi avrei fatto, l’avessi raggiunto.

Quella fu la volta in cui tutti mi dissero che bisognava lasciare dei contanti nell’ingresso, così prendono quelli e se ne vanno. Se fossi stata una ventiequalcosenne di adesso, avrei accusato i consiglieri di far pesare il loro privilegio: come tutte le ventenni ero tenacemente squattrinata, mica mi avanzavano duecentomila lire da lasciare nell’ingresso come antifurto.

All’epoca invece mi concentrai sull’ordinaria amministrazione nel tono di tutti gli interlocutori cui riferivo la per me sconvolgente evenienza dei ladri in casa. Nessuno, né quella né nessuna delle successive volte, fece un plissé. Quindi aveva ragione mia madre, con tutti quei cancelli blindati e vetri antiproiettile. Quindi i ladri esistevano, erano un pericolo quotidiano, un rischio continuo.

Solo molti anni dopo, lontana da quelle due patologie della psiche che erano mia madre e Roma, capii che no, avere i ladri in casa non è normale. Il fatto che in diciott’anni di Roma mi fossero entrati in casa non so quante volte era normale solo per i romani (uno dei quali di recente mi ha detto: «Se non vengono ti offendi: mica penseranno non ci sia niente da rubare»).

È un mattino di primavera quando incontro il secondo uomo più importante della mia vita, l’amministratore del palazzo in cui passo parte del mio tempo. Mi racconta che, siccome i portoni con fotocellula ci mettono un po’ a richiudersi, quando qualche inquilino rientra la sera e non aspetta che si richiuda l’uscio alle sue spalle, a volte s’introduce qualche ladruncolo. Che poi cerca se c’è qualcosa da rubare facilmente: un garage aperto, un monopattino, l’altra notte hanno preso duecento euro da dentro la macchina d’un inquilino.

Gli ha chiesto perché diamine tenesse duecento euro in macchina, quello ha detto qualcosa come «magari sono in giro e non ho contanti», ma io so la vera ragione: è l’inflazione, i duecento euro di ora sono le duecentomila lire con cui io avrei dovuto far desistere i ladri a fine secolo.

Chiedo se mi devo preoccupare, lui dice che son ladri da poco e mica salgono, e io penso che devo stare più attenta e non dimenticare le chiavi attaccate fuori. Passano due giorni, e una mattina mi telefona il primo uomo più importante della mia vita, il portiere. Stanotte i ladri sono andati nelle cantine, anche nella sua, c’è qui la polizia.

Dopo essere andata coi poliziotti a controllare che nessuno si fosse degnato di prender niente dalla mia cantina, una cantina in cui ci sono solo libri e i ladri si saranno chiesti chi fosse questa pezzente, dopo aver contenuto il mio impulso di rispondere alla domanda sugli eventuali ori da me conservati in cantina «Non uso gioielli: ha presente Carolyn Bessette?», risposta che probabilmente sarebbe valsa l’arresto, dopo tutto questo vado al bar all’angolo.

«Come va?» «Sono entrati i ladri nel palazzo» «Quale palazzo?» «Quello lì» «Ma di nuovo?». Ecco: siamo la leggenda del quartiere. Si è sparsa la voce che è un palazzo di imbecilli che se entri trovi una Porsche in cortile e se la apri dentro ci sono duecento euro per pagare il casello. Ci sarà presto un attrezzo che dà i numeretti, per smistare la lista d’attesa di ladri che vogliono rubare a questi cretini. Se vai su di là trovi una con le chiavi attaccate fuori dalla porta, pure.

L’uomo più importante della mia vita mi dice di non spaventarmi se vedo gente armata rientrando la sera: ci sarà la vigilanza finché non cambiano serrature e fotocellule e tutte cose. Capirai, con la mia capacità di sembrare una barbona anche con addosso trilioni di fili di cashmere, minimo mi prendono per una ladra e mi sparano prima che possa dichiarare le mie generalità.

Penso al poliziotto che osserva le file ordinate di scatoloni di libri lasciate sugli scaffali della cantina dai traslocatori. Penso al colpo che gli sarebbe preso entrando in casa mia. Penso ai suoi colleghi romani che, ogni volta che venivano a verbalizzare che di lì erano passati i ladri, mi dicevano ma questo è sicuramente un dispetto di un ex fidanzato, guardi come le ha ridotto casa. E ogni volta mi toccava spiegargli che no, la casa era così già prima dei ladri, era il mio disordine normale. Guardi, l’unica cosa fuori posto è la macchina del caffè.

Penso che in quegli anni ascoltavo ossessivamente Fossati, e quindi trent’anni dopo mica può sorprendermi che le persone non cambino, e il loro disordine neppure: è solo che, col tempo, il tempo poi le complica più di un po’. Chissà in che scatolone è la macchina del caffè, magari con l’occasione potrei mettermi a disfarli: non vorrei che i prossimi ladri dovessero incomodarsi a disimballare la refurtiva.

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