Paolo Iabichino, scrittore pubblicitario tra i più apprezzati del nostro Paese e fondatore dell’Osservatorio Civic Brands con Ipsos, individua in una campagna Nike del 2018 la genesi di quello che da molti viene chiamato Brand Activism, cioè la volontà dei brand di prendere posizione su temi rilevanti per la società e ovviamente coerenti con il loro posizionamento commerciale.
Siamo nel 2018, appunto, quando Nike raggiunge l’accordo con il quarterback dei San Francisco 49ers, Colin Kaepernick, perché sia lui il volto dello spot che celebrerà i trent’anni dalla creazione dello storico slogan «Just do It». Annunciando l’accordo, Nike lo presenta come «uno degli atleti di maggiore ispirazione della sua generazione».
In quel momento Colin Rand Kaepernick non è certamente il più forte quarterback della Lega e non è neppure un talento pronto a sbocciare come fu, a suo tempo, Michael Jordan quando il manager Sonny Vaccaro convinse Nike a investire tutto il budget di sponsorizzazioni dell’azienda su di lui, sicuro com’era che avrebbe segnato la storia sportiva degli anni a venire. Ma da quel lontano 1984 il mondo è cambiato e il marketing con esso.
Riavvolgiamo il nastro: estate del 2016, alla fine del terzo match di pre-season dei San Francisco, Steve Wyche – reporter del canale ufficiale della Nfl – nota che Kaepernick è rimasto seduto durante la cerimonia pre-gara in cui viene spiegata la bandiera a stelle e strisce ed eseguito l’inno nazionale. Durante un’intervista post-partita, Kaepernick spiega la sua posizione dichiarando: «Non mi alzerò per mostrarmi orgoglioso per una bandiera di un paese che opprime le persone nere e le persone di colore. Per me, tutto ciò è più grande del football e sarebbe egoistico da parte mia voltare lo sguardo dall’altra parte. Ci sono corpi per strada e persone che ottengono congedi pagati e scampano all’accusa di omicidio (facendo riferimento a una serie di morti di afroamericani causate da scontri con le forze dell’ordine e al movimento Black lives matter, nda)».
Aggiunse anche che avrebbe continuato a protestare finché non avesse sentito che la bandiera americana «rappresenta ciò che dovrebbe rappresentare». Kaepernick continuò la sua protesta per tutta la stagione, prima restando seduto, poi addirittura inginocchiandosi durante l’esecuzione di The star-spangled banner. A fine stagione non gli verrà rinnovato il contratto con la franchigia californiana e a soli ventinove anni sarà costretto a lasciare il football professionistico.
«Believe in something, even it means sacrificing everything» (Credi in qualcosa, anche se significa sacrificare tutto). Termina così il video Nike di oltre due minuti “Dream Crazy” che, accompagnato dalla voce narrante di Kaepernick, suona ancora più poderoso e autentico. La risposta della nazione fu un concerto di voci contrastanti. Il 5 settembre 2018, addirittura, il presidente Donald Trump twitta: «Proprio come la Nfl, le cui azioni sono crollate, Nike sta venendo completamente travolta dalla rabbia e dai boicottaggi. Mi chiedo se avessero idea di cosa sarebbe successo? Per quanto riguarda la Nfl, trovo davvero difficile guardarla, e sarà sempre così, finché (i giocatori, nda) non si alzeranno davanti alla bandiera!».
Il cantante country texano John Rich twittò una foto di un paio di calze Nike con il logo swoosh del marchio tagliato. A ventiquattro ore dall’uscita dello spot Nike, su Twitter circolavano già centomila post con l’hashtag #BoycottNike e tanti utenti si filmavano mandare in fiamme i loro capi firmati, al grido #JustBurnIt. Nike rispose dal suo profilo ufficiale, con un post in cui spiegava: «Date fuoco ai nostri capi all’aperto, rimanete almeno un paio di metri dalle fiamme, non avvicinate i vostri vestiti al fuoco, una volta finito assicuratevi che le fiamme siano spente». Gioco, partita, incontro!
Ma molte furono anche le voci di supporto; oltre ai voti noti che apparivano nello spot come Serena Williams, LeBron James, Shaquem Griffin (atleta che pur senza una mano arrivò a giocare come professionista in Nfl), fece particolare clamore il tweet di un utente, “Teri Shockey”, che parlava dritto al cuore del nazionalismo americano: «A tutti coloro che stanno aderendo al #JustBurnIt, perché invece non donate i vostri capi Nike? Ci sono molte persone in difficoltà, compresi veterani e famiglie di militari in servizio attivo, sarebbero più che grate di indossarlo. #JustDoIt».
Nei giorni immediatamente successivi alla campagna il titolo Nike scese, ma dopo le prime inevitabili fluttuazioni, il 21 settembre 2018, il valore delle azioni tocca il suo massimo storico a 85,55$ per azione e, secondo il Time, la casa di Beaverton registrò un aumento del trentuno per cento nelle vendite online.
Ancora una volta un messaggio autentico, potente e credibile ha funzionato meglio di volti posticci abbinati a brand, partiti, servizi. I simboli sono importanti, ma è ancora più importante che siano credibili rispetto alle storie che vogliamo raccontare e soprattutto che abbiano qualcosa da simboleggiare.
Tratto da “Chi mi ama mi voti” (Guerini e associati), di Domenico Petrolo e Lorenzo Incantalupo, pp. 192, 17,50€