Questa è la storia di cosa penseranno gli archeologi di noi, è la storia d’un’amica intelligente, è la storia d’una cassiera eroica, ma soprattutto è la storia della regola che applicano tutte le persone normali sull’internet: non seguire i social dei politici.
Quale sarà il punto per il quale archeologi e storici decideranno che siamo stati, noialtri di questo secolo satollo, i più imbecilli che siano mai passati su questa terra? Ieri sul Times c’era la storia d’una tizia dell’università di Londra che, saputo che una collega era giapponese, aveva detto «Mi piace il sushi».
È stata perciò denunciata e, in questi giorni, assolta da una serie di incriminazioni, dalla discriminazione razziale alle molestie. Sì, va bene, l’hanno assolta. Ma l’hanno processata. Perché, come quelli che in ascensore parlano del tempo, non sapendo cosa dire a una giapponese le aveva detto che lei e i suoi familiari vanno sempre in non so che ristorante giapponese.
E perché una tizia che lavora all’università, non Mowgli appena uscita dalla giungla e ignara del concetto di small talk, l’ha ritenuta una «microaggressione» (chiunque studi questo secolo sa che ci sono parole di fronte alle quali sai con certezza che ciò di cui stai leggendo è una puttanata, una gamma di lemmi che va da «microaggressione» a «è uno spettro»).
È mai esistito un secolo più stupido? Me lo chiedo ogni mattina, quando in qualunque bar decida di fare colazione c’è comunque gente coi cani, e ogni volta sogno un sindaco che faccia un’ordinanza di civiltà minima, «nei posti dove si mangia non si entra coi cani», ma nessun sindaco rischierebbe in questo modo l’impopolarità.
Figuriamoci se vogliono rischiarla i baristi, che anzi si precipitano ad accarezzare i cani e con le mani piene di peli servono poi ai clienti le brioche (storici e archeologi studieranno un’epoca che impone a chi maneggia alimenti l’uso di guanti, ma non gli spiega che se con quegli stessi guanti tocchi le brioche, i contanti, e i cani, ecco, come dire).
D’altra parte i proprietari di cani ti dicono serissimi che il loro zozzo accompagnatore che sta al tavolo con loro o forse addirittura in braccio a loro al bancone, quel cumulo di pulci che si gratta via mentre loro girano il cappuccino zuccherato con dosi singole in igieniche bustine, quell’animale non è più lercio delle tue scarpe che hanno camminato sul marciapiede: insomma, tu e Fido pari siete.
È vano rispondergli che però tu le scarpe non le metti sulle sedie o sul bancone: è il loro bambino, come osi, sarai una di quelle incivili che li chiamano «padroni di cane», non sai che il cane non è una proprietà, non lo sai che io sono «il suo umano»?
Non è che i padroni di gatti siano meno ottusi di quelli di cani, eh: è solo che i gatti non li portano in giro e almeno non mi spelano sulle brioche. Ma ciò non mi fa trovare meno rappresentante di questo secolo imbecille e satollo la signora che di recente, alla cassa d’un Tigotà, chiedeva la sabbietta di non so che marca, e alla cassiera che le diceva che forse di quella marca era finita rispondeva seria come una genitrice montessoriana «eh ma su quella di altre marche non me la fa mica». (Quel giorno pioveva a dirotto, e io mi chiedo da allora se la tizia sia andata sotto al diluvio a cercare la marca giusta per l’animale che sono certa chiami «figlio peloso»).
La mia eroina è la signora che stava alla cassa solo carte di credito della Coop di piazza santo Stefano, a Bologna, la mattina del 31 dicembre. Ero una delle centinaia di coglione che si erano ricordate il 31 mattina che mancava qualcosa per cena, e che sono state ore in fila. Quando finalmente è arrivato il mio turno, c’era un intoppo.
Alla cassa c’era infatti una ragazza con un cane e la pretesa di pagare in contanti (nessun cretino è mai cretino solo in una cosa). La signora, gentile ed efficiente come una non bolognese, cercava di risolvere la questione senza far perdere a noi normodotati ulteriore tempo, e tuttavia ha trovato il coraggio di dire alla ragazza: che poi col cane qui non si potrebbe neanche entrare.
Altro che staffetta partigiana, altro che madre coraggio: la cassiera che osa dire a una che vuole pagare in contanti alla cassa solo carte che il suo figlio peloso deve aspettare fuori, una così è l’eroina di cui questo secolo ha bisogno.
Sempre a Bologna, il cartello sui cani che devono aspettare fuori l’ho visto esposto da Atti, il più tradizionale ed economicamente florido tra i posti dove bolognesi e turisti vanno a comprare i tortellini. Un secolo in cui devi avere un posizionamento di mercato inaffondabile e la certezza che da te ci verranno comunque, per permetterti di non volerti trasformare in canile.
Un secolo i cui abitanti sono così disperatamente incapaci di fare small talk da non bastargli frequentare cretini o bambini: nessuna conversazione è abbastanza stupida per le doti intellettuali di questo secolo, e l’unica compagnia che non ci faccia sentire microaggrediti con le sue pretese di svegliezza è quella di esseri cui tiri una pallina e che te la riportano, e che neanche tra dieci anni avranno imparato a pisciare da soli e tra trenta non ti pagheranno la pensione. Cani, gatti, e altri esseri dialetticamente non impegnativi.
Qualche tempo fa tornavo da un ristorante con un’amica intelligente, e abbiamo visto la locandina che offriva non so che ricompensa per un qualche gatto smarrito. Ho iniziato a borbottare.
Poco prima avevo raccontato che, avendo rovesciato del gelato su una borsa di Balenciaga che amo molto, avevo recuperato il cattolicesimo di mia nonna e fatto un fioretto: se riesco a smacchiarla non mangio dolci per un mese. Ci ero riuscita, e mi ero privata dei dolci per un mese quasi intero (sono atea ma comunque convinta che Zeus mi fulmini se vengo meno a un impegno).
L’amica mi ha dato l’unica risposta intelligente che possa dare una proprietaria di gatto a una che considera il mettersi animali in casa come un segno tragico di stupidità e fragilità e inadeguatezza: «Oh: tu hai la Balenciaga, noi abbiamo i gatti». Quindi c’è un modo di essere proprietari di animali e non scimunirsi completamente: considerarli accessori costosi, nella cui sabbietta ormai hai investito e quindi è bene non crepino o scappino prima di averti fatto ammortizzare le spese.
Come tutte le persone non autolesioniste, non seguo i social dei politici. Di quelli di destra, perché tanto ho sempre qualche amico medio riflessivo che me ne manda foto con commento «ma ti rendi contoooo». Di quelli di sinistra, perché ogni loro post mi fa venire voglia d’iscrivermi ai nazisti dell’Illinois.
Serbo quindi un certo rancore verso il lettore di questo giornale che ha portato alla mia attenzione il post d’un deputato di Azione, Fabrizio Benzoni, che mercoledì (giornata internazionale della famiglia: è sempre la giornata internazionale di qualcosa) voleva fare gli auguri a TUTTE (maiuscole sue) le famiglie.
E quindi ha postato un disegnino con tutte le famiglie. Uomo e donna, uomo e donna e bambini, uomo e uomo, uomo e bambina, donna e donna, donna e bambina, coppia di uomini con bambine e, facendomi sputare il cappuccino, un uomo con un cane.
Non è che io non capisca Azione, e in generale il disperato e smanioso bisogno di consenso dei partiti all’inseguimento dei capricci degli elettori. Nelle farmacie la sezione per gli animali è ormai più ampia di quella per le creme solari, il veterinario è detraibile quanto il mio cardiologo, per i bocconcini per i figli pelosi la Coldiretti riporta si spendano in Italia 3 miliardi l’anno: come può un’Azione arginare il mare?
Però, ecco: col cane – che oltretutto guarda in una direzione diversa dal suo umano, indicandoci un’insoddisfazione che andrebbe indagata: come siamo messi con gli psicanalisti per cani? – solo un uomo. Non dico la modernità d’un disegno di fluidi non mammiferi con cani e gatti e criceti; ma è inaccettabile che non ci sia una donna con gatto o cane. Francamente mi aspetto che qualche associazione femminile faccia causa ad Azione per la discriminazione di genere. Meglio, scusate: per questa intollerabile microaggressione.