Farina di filiera Il progetto di un mugnaio-agricoltore con la passione per la bici

Siamo andati a conoscere Stefano Pransani che ci ha raccontato come si è dedicato al recupero della biodiversità attraverso la semina dei grani tradizionali

Stefano Pransani

Sempre più spesso si sente parlare di pane fatto con farine da grani antichi. Ma cosa significhi esattamente in pochi lo sanno. La verità è che c’è chi usa queste due parole come una facciata e chi le lega a una pratica agricola. Chi ridà senso ogni giorno a questa locuzione è sicuramente Stefano Pransani, un mugnaio con la passione per la bici da corsa. Il fisico ricorda un po’ quello di Marco Pantani e anche la parlata. Del resto sono quasi conterranei: il “Pirata” era di Cesenatico, Stefano di Sogliano al Rubicone (Forlì-Cesena), un paesino a ridosso delle colline fra l’Appennino e l’Adriatico.

L’impronta agricola è impressa nel suo Dna: i nonni materni erano contadini e allevatori, quelli paterni gestivano il mulino e il forno del paese. Stefano, con il suo lavoro, ha rimesso in contatto questi due mondi. «La mia è una storia semplice. Da giovane avevo una passione per il ciclismo. Poi per un incidente ho dovuto smettere. Visto che avevo un diploma in agraria e un’azienda agricola mi sono lanciato in un nuovo progetto».

A distanza di vent’anni ha rilanciato l’impresa e il mulino di famiglia, ma soprattutto si è dedicato al recupero della biodiversità attraverso la semina dei grani tradizionali: «All’inizio i semi li prendevo al Podere Stuard di Parma in bustine da venti grammi. Ho cominciato a piantarli insieme a un mio amico, prima su un metro quadrato, poi su due, poi su venti. Oggi ho perso il conto».

Le varietà che negli anni ha riportato in campo sono le cosiddette “elette”, quelle sviluppate dal genetista Nazareno Strampelli per ottenere piante più produttive e resistenti. Ecco perché chiamarli “grani antichi” non ha senso, visto che risalgono al periodo della “battaglia del grano” degli anni Venti.

Quella di Stefano è stata una lenta opera di persuasione. Non è stato sempre semplice convincere gli agricoltori a sostituire le varietà moderne – create ad hoc per un’agricoltura intensiva e legata all’uso di fertilizzanti – con quelle tradizionali, decisamente “più rustiche”. Ma alla fine il suo progetto è andato in porto.

Stefano Pransani, foto di Comunità Grano Alto

Attualmente sono circa una trentina le aziende con cui ha stretto un patto di filiera. Si va dal piccolo contadino alla grande impresa. Quel che è certo è che tutti coltivano in biologico. Il numero di ettari può variare di anno in anno ma più o meno Stefano arriva a macinare circa sedicimila quintali di grano all’anno. Rispetto a una struttura industriale, che in media ne lavora tremila al giorno, non è tanto. Per il suo mulino aver raggiunto questa cifra è un traguardo importante.

«Molti agricoltori hanno accettato la sfida di seminare grani tradizionali perché hanno capito che puntare sulla qualità garantiva un maggiore ritorno economico». Con i patti di filiera il prezzo del grano viene fissato a inizio stagione dagli stessi agricoltori in sinergia con i mugnai e i fornai, sottraendolo in questo modo alle sempre più volatili logiche di mercato. «Ci troviamo a novembre e stabiliamo un “minimo garantito”, considerando tutte le circostanze contingenti e cercando di prevedere anche l’imprevedibile. Questo permette a tutti noi di avere un’entrata minima certa e quindi di lavorare con più serenità».

Stefano, per esempio, non ha alzato di un centesimo il costo della farina né durante il Covid né dopo lo scoppio della guerra in Ucraina. Questo perché «la filiera ci ha educato ad accontentarci per cercare di far andare avanti tutti. Il pane fatto in un certo modo è ovvio che costi di più, ma non può avere un prezzo troppo alto perché è sempre un bene primario. Chi lo compra, in compenso, sa che mangia un alimento sano e del territorio, realizzato da persone che fanno del loro meglio per realizzare un prodotto di alta qualità. Ma soprattutto che quel costo permette a tutti di guadagnarci, di dare una giusta retribuzione ai propri dipendenti e di tutelare l’ambiente circostante. Non è mica poco!».

Sul finire degli anni Duemila, il sociologo rurale olandese Jan van Der Ploeg indicava come possibile strategia di sopravvivenza per gli agricoltori quella di scollegarsi dai mercati mondiali, sia rispetto alla fornitura dei mezzi di produzione che al mercato dei prodotti, per rinforzare la loro autonomia e costruire nuove relazioni con gli attori delle filiere locali, a partire dai consumatori. Un’idea definita “ricontadinizzazione”. Pransani incarna alla perfezione questo concetto.

Nella sua doppia veste di agricoltore e mugnaio riesce ad avere sotto controllo tutte le fasi di produzione, dalla semina alla trasformazione e rappresenta un’importante figura ponte che collega il mondo dei fornai a quello agricolo. Grazie alla scommessa fatta vent’anni fa e al suo lavoro quotidiano è diventato un punto di riferimento per chi cerca farine di qualità e uno dei cardini della Comunità del Grano dell’Alto Appennino tra Bologna e Firenze, che da tempo porta avanti un lavoro di rigenerazione del territorio e delle relazioni anche attraverso l’evento Forni e Fornai•e, quest’anno in programma l’1 e il 2 giugno tra Bologna e Monghidoro.

In passato Stefano si è anche occupato della selezione dei semi. Oggi per avere un prodotto stabile e certificato si affida ad Arcoirs, l’unica azienda sementiera italiana cento per cento biologica e biodinamica. Nel frattempo la facoltà di agraria dell’Università di Bologna, sotto la guida del professor Giovanni Dinelli, ha attivato alcuni progetti sperimentali che lui porta avanti. Uno di questi riguarda la semina della popolazione evolutiva Oroset (“tesoro” scritto al contrario). Le popolazioni sono mescolanze di tantissime varietà diverse della stessa specie e da una parte di agricoltori e genetisti sono considerate la risposta naturale ai cambiamenti climatici, ideale per l’agricoltura biologica.

Il legame con il passato non ha mai rappresentato un freno all’evoluzione: al recupero dei grani tradizionali è stata affiancata per esempio una profonda opera di modernizzazione del mulino, investendo soprattutto sull’aspetto tecnologico. «Forse è un po’ meno poetico di come uno se lo immagina, ma è decisamente più performante».

I chicchi di grano, prima di venire macinati, vengono mandati al laboratorio di analisi per avere la certezza assoluta che siano stati coltivati in biologico. Successivamente la farina viene sottoposta a un controllo qualità interno. Il tecnico che lavora per Stefano è in grado di leggere le caratteristiche alveografiche della materia prima che successivamente verranno trasferite ai clienti.

Le farine provenienti dai grani tradizionali hanno meno glutine rispetto a quelle che si trovano normalmente in commercio, per questo sono più difficili da lavorare. In compenso hanno un bouquet di sapori molto più ricco. L’obiettivo di Stefano è di realizzare un prodotto artigianale, ma comunque stabile così da essere più facilmente lavorabile. «Le nostre farine vengono fatte in sinergia con gli agricoltori e con i fornai, valorizzando le competenze di ciascuno. Noi abbiamo il nostro laboratorio analisi, ma per arrivare a fare una farina eccellente sono fondamentali i feedback dei panificatori».

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