Tabù climaticiLa tassa sul patrimonio degli ultra-ricchi e la transizione verde nei Paesi più poveri

Cronaca di un dibattito universitario sul rapporto tra crisi climatica e capitalismo, un tema privo di risposte certe ma ricco di proposte tutt’altro che astratte

@aoc / Instagram

Dalla newsletter settimanale di Greenkiesta (ci si iscrive qui) – Ieri mattina ero a Firenze per partecipare come relatore a un dibattito organizzato per lo SciPol Day, la giornata di divulgazione dedicata alla scuola di scienze politiche di UniFi. Il tema dell’incontro era sfidante e terrorizzante al tempo stesso: come si inserisce la lotta alla crisi climatica in una società capitalistica fondata sul consumo, la competizione, l’abbondanza e il materialismo. Non basterebbe un intero libro per snocciolare l’argomento, privo tra l’altro di risposte certe e universalmente condivise. E di certo il pezzo di apertura di questa newsletter non ha le pretese di svelare l’arcano e parlare con il “ditino alzato”, ma – al contrario – vuole fornire spunti e osservazioni da approfondire successivamente su questi canali.

Il pubblico era interamente composto da studenti e studentesse della triennale e della magistrale. Una volta seduto in cattedra, ho visto davanti a me l’esercito di borracce variopinte dei presenti. Borraccia che io avevo dimenticato a casa, sostituendola con una bottiglietta di plastica comprata in treno. Un po’ per vergogna e un po’ per quieto vivere, ho lasciato nei meandri del mio zaino quel maledetto oggetto derivante dal petrolio, bevendo un paio di volte quasi di nascosto. 

L’incontro è stato proficuo e ricco di osservazioni spesso stimolanti e puntuali da parte degli studenti, in linea con la domanda alla base del panel: esiste un modello ideale per uno sviluppo realmente sostenibile? Il professore di Economia applicata all’Università di Firenze Nicolò Bellanca, l’altro ospite del dibattito, ha parlato di «slow down»: meglio dire «rallentamento» al posto di «decrescita», che sia felice o meno. Un rallentamento fondato su un’abbondanza di beni comuni. 

Io ho iniziato il mio intervento spiegando che un piano per una decrescita (o un rallentamento) sostenibile non è ancora al centro (ma neanche a destra o sinistra) dell’agenda politica, perché la transizione ecologica ed energetica è cucita su misura per un sistema economico di stampo capitalistico. Non è tutto da buttare: nel suo ultimo report, l’Agenzia internazionale dell’energia (Iea) ha ribadito che nei Paesi più ricchi le emissioni stanno diminuendo e il Pil sta comunque crescendo. Ma non basta, serve una spallata più decisa per mitigare un’emergenza irrisolvibile solo in parte, perché il ritmo del peggioramento è nelle nostre mani.

Una delle alternative di cui si parla sempre più spesso riguarda la rivoluzione del fisco globale. In parole più semplici: tassare le persone molto (molto molto) ricche per destinare quel denaro ai Paesi più poveri, che sono al contempo quelli più vulnerabili al cambiamento climatico e i meno responsabili della crisi climatica. Appena dalla mia bocca è uscita la frase «tassare i ricchi», detta anche come provocazione per stimolare il dibattito, gli occhi degli studenti si sono illuminati. Il professor Bellanca, invece, ha definito la misura molto complessa da realizzare, perché non esiste un governo universale. Se i big player come gli Stati Uniti introducessero una norma simile, ha aggiunto il docente, potrebbe però innescarsi un interessante «effetto emulazione».  

 Tax the rich non è aria fritta o una scritta sull’abito di Alexandria Ocasio-Cortez al Met Gala. Si tratta di una proposta vera – sostenuta da due Nobel per l’Economia del calibro di Esther Duflo e Joseph E. Stiglitz – che il Brasile sta portando avanti nell’anno della sua presidenza del G20. L’idea è duplice: tassa del due per cento sul patrimonio degli “ultra ricchi” e Global minimum tax per le multinazionali dal quindici al diciotto per cento. La prima andrebbe a colpire circa tremila miliardari nel mondo, ma sarebbe sufficiente per raccogliere duecentocinquanta miliardi di dollari l’anno da destinare agli Stati più poveri e meno industrializzati. 

Il dibattito si è concentrato molto sull’equilibrio tra responsabilità dei cittadini comuni e responsabilità dei “potenti”. Gli studenti hanno giustamente puntato il dito contro l’inazione climatica e la scarsa sensibilità dei governi, ma nessuno – e questo mi ha colpito – ha parlato della responsabilità delle aziende. Essendo all’interno di una società capitalistica, il cui modello è radicato in ogni angolo della quotidianità, spesso sono proprio le aziende a influenzare l’agenda dei governi, non viceversa (e lo scandalo ligure, forse, lo conferma). Ecco perché il ruolo delle imprese, grandi o piccole che siano, è senza mezzi termini decisivo.  

Proseguendo oltre, uno studente ha citato il «diritto a inquinare» dei Paesi più poveri, perché secondo lui «è sbagliato imporre alle economie meno industrializzate il modello green che stiamo sposando in occidente». Un suo collega ha replicato dicendo che il tempo per agire è poco, il Pianeta soffre e quindi «la transizione ecologica non va affrontata in modo etico», altrimenti «non si fa mai nulla» di concreto. Immancabile, per concludere, la domanda sul nucleare: «Ma voi cosa ne pensate?», ha chiesto, un po’ intimorito, un ragazzo dall’ultima fila.

X