Il video è un medium che, negli ultimi dieci anni, sta tornando a essere predominante nella pratica artistica. Inevitabilmente, deve fare i conti con i nostri dispositivi che sono diventati il tramite attraverso cui accediamo a ogni tipo di notizia e contenuto, dal più leggero e disinvolto al più complesso e impegnato: dal semplice tutorial di una pasta vegana al video proveniente direttamente dai quartieri bombardati. Soggetti a una bulimia informativa, ciascun contenuto compete per il nostro limitato spazio emotivo, senza che una somma significativa attecchisca dentro di noi.
La velocità e la quantità di immagini in movimento che fruiamo sono eccessive, e il risultato è un inconscio rigetto. Demotivati, confusi e impotenti, la riflessione si riduce allo spazio bianco tra due contenuti, mentre scrolliamo la realtà che lo schermo ci presenta. Il nostro rapporto con il video si stringe nel momento in cui la televisione entra nelle case della medio-piccola borghesia, tenendo inchiodate le famiglie per cinque-sei ore al giorno. È in questo periodo che gli artisti iniziano a interessarsi, a prendere nota e a utilizzare il video come un linguaggio da possedere e manipolare.
«Non volevo occuparmi dei media traducendoli con altri media, ma utilizzare il “video nel video”», dirà Dara Birnbaum, pioniera della videoarte. Sono gli anni Ottanta e lei, Lynda Benglis, Nam June Paik, Ulysses Jenkins, Joan Jonas, Richard Serra sono solo alcuni degli artisti che, tramite il video, hanno aperto importanti capitoli nella cultura contemporanea. Man mano che il “catalogo televisivo” si ampliava, offrendoci sempre più controllo sulla sua fruizione, qualcosa nella videoarte ha iniziato a incrinarsi. Il video ha iniziato ad apparire ovunque, fuori dalle nostre abitazioni, alle fermate degli autobus, negli aeroporti, alle stazioni di benzina. Per molto tempo, l’impressione generale è stata che questo afflusso massiccio avrebbe portato la videoarte all’estinzione, semplicemente perché il video era divenuto troppo “evidente”, ridondante, per essere considerato arte.
Ciononostante, pur attraversando momenti difficili, la videoarte non si è mai estinta e oggi sta tornando a essere discussa e, soprattutto, praticata. La novità risiede proprio nel fatto che gli artisti oggi utilizzano questo medium per affrontare la stessa ridondanza che lo penalizza, e per esplorare il nostro coinvolgimento con le evidenze contemporanee, non in quanto pubblico, ma cittadini e abitanti, toccando questioni sociali e politiche in un risveglio emotivo ormai imprescindibile.
Se da un lato è nostra responsabilità individuale regolare il tempo e le modalità con cui ci esponiamo alle informazioni, dall’altro questa immersione quotidiana in video di talk, tutorial e ballo è diventata una tematica centrale per gli artisti. Ecco allora che potremmo citare il lavoro Popular Unrest di Melanie Gilligan (2010), Grosse Fatigue (2013) di Camille Henrot. O, più recentemente Manuel Arturo Abreu con An Alternative History of Abstraction (2020) o Ken Okiishi con Vital Behaviors (2019).
La videoarte non è solo un proiettore in una stanza buia. È più di un semplice link: richiede il suo contesto, le persone che attraversano uno spazio, i rumori di sottofondo, l’impossibilità di cliccare, stoppare o mandare indietro le immagini. Per fruire della videoarte, si deve essere presenti in quel determinato luogo, accolti nel momento della sua trasmissione. Solo così la videoarte e il suo messaggio possono imporsi sul nostro sguardo e sulla nostra comprensione, che viaggiano a velocità completamente diverse. A differenza del cinema, non ci rende spettatori invisibili, ma parte integrante dello “spettacolo”. Essa continua a svolgere il lavoro che è proprio dell’arte, offrire uno spazio per la contemplazione. A noi, il pubblico, non resta che la responsabilità di trovare il tempo per assorbire.
A sollevare domande sul potenziale espressivo dell’immagine in movimento nella pratica artistica è la Fondazione In Between Art Film, di cui Beatrice Bulgari è presidente. Dal 2019, sotto la direzione artistica di Alessandro Rabottini e la curatela di Leonardo Bigazzi, la Fondazione ha proseguito e ampliato il lavoro dell’omonima casa di produzione, attiva dal 2012 al 2019, che ha sostenuto produzioni video e cinematografiche di artisti e registi internazionali. Con la stessa sensibilità, oggi vengono sviluppati programmi culturali che incoraggiano e sostengono il dialogo tra artisti, istituzioni e centri di ricerca internazionali, con l’obiettivo primario di indagare i confini dei time-based media, tra film, video, performance e installazione.
Come è stato per la mostra Penumbra, anche il secondo progetto espositivo della Fondazione, Nebula, visitabile fino al 24 novembre 2024, è ospitato negli splendidi spazi del cinquecentesco Complesso dell’Ospedaletto a Venezia, suddiviso in quattro edifici, tra cui la chiesa di Santa Maria dei Derelitti. Quest’ultima è particolarmente nota per i cori delle putte orfane, che venivano educate alla musica da maestri di grande talento. Qui si trova un prezioso organo del 1751 firmato da Pietro Nacchini e la Sala della Musica, ultima aggiunta tardo settecentesca al complesso, affrescata da Jacopo Guarana e Agostino Mengozzi Colonna.
Gli artisti coinvolti in questa straordinaria indagine sono Giorgio Andreotta Calò, Ari Benjamin, Christian Nyampeta, Basir Mahmood, Basel Abbas e Ruanne Abou-Rahme, Diego Marcon, Cinthia Marcelle e Tiago Mata Machado, e Saodat Ismailova. Uniti da un rapporto di stima e profonda conoscenza con Leonardo Bigazzi, questi artisti esplorano il sottile confine tra il guardare e il vedere, tra ciò che si percepisce e ciò che si comprende chiaramente.
Otto installazioni site-specific sono il risultato di questa ricerca, intimamente legate alle sale del Complesso e ispirate alla metafora della “Nebula”, la “nuvola” o “nebbia” in latino, per affrontare tematiche di natura diversa: la vastità del paesaggio in cui è possibile smarrirsi o trovare la salvezza, l’architettura della memoria, e la musica e la voce come strumenti di riaffermazione. Ancora, il riverbero della Storia e l’impatto delle forze economiche e politiche sull’ambiente e sulla vita delle persone. La “Nebula” depotenzia il nostro legame con i sensi, rendendoci fragili, scoperti, incapaci di comprendere la vicinanza o la distanza di qualunque cosa, che si tratti di un pericolo o di un rifugio sicuro.
All’interno del Complesso, che cattura l’attenzione dei passanti con i suoni che ne emergono, si sviluppa un percorso che, nella sua delicatezza, riesce a mettere in discussione le nostre certezze sul ruolo di osservatori, sulla frontalità e la centralità dello schermo. Un itinerario scandito dalle luci e dai suoni dello studio 2050+, cuciti su misura attorno alla forma e al concetto di ciascuna opera. Questo testimonia come il video oggi possa espandere le nozioni predefinite, dando vita a un’esperienza totalizzante e, usando le parole di Rabottini e Bigazzi, sollevando una domanda: l’atto del vedere ci rende testimoni della realtà o partecipi di un miraggio?
A partire da questo, è nata una conversazione con il curatore Leonardo Bigazzi, incentrata sulle potenzialità del video, il legame con lo spazio architettonico e le responsabilità fruitive. Tra una domanda e l’altra, mi ha confidato: «Se tu mi vedessi installare una mostra, mi vedresti girare come una trottola, passare giorni interi nello spazio per capire a livello percettivo come una persona si muove al suo interno». Qualcosa che ci sottolinea, ancor prima di cominciare, la cura e l’attenzione meticolosa dedicate al progetto.
Partiamo dal tema centrale. Che ruolo ha oggi il video?
Dal mio punto di vista, le immagini in movimento rappresentano il medium artistico che, a partire dagli anni Duemila, è stato capace più di ogni altro di registrare gli eventi storici e le tensioni del nostro tempo. Un po’ come la fotografia nell’Ottocento, il video sta rivoluzionando profondamente il modo in cui l’essere umano produce e si relaziona alle immagini, specialmente nel contesto dell’arte. Lavorare con un medium del genere oggi significa lavorare con il principale strumento narrativo del nostro tempo.
Le opere presenti nella mostra ampliano il concetto tradizionale di film e video, assumendo forme scultoree e inglobando suoni e luci. Questo risultato corrisponde a una visione molto chiara…
Sì, diciamo che la collaborazione per questa mostra con 2050+, lo studio fondato da Ippolito Pestellini Laparelli, nasce con l’intento di amplificare ulteriormente l’esperienza percettiva delle opere. Attraverso il lavoro curatoriale e il set design si è cercato di trasformare l’intera mostra in un’architettura sensoriale dove la scenografia a volte amplifica, altre volte attenua i sensi del visitatore, creando un dialogo diretto con il tema della mostra.
Una delle idee di partenza della mostra è stata quella di spazializzare le opere in modo da scardinare le gerarchie con cui solitamente ci relazioniamo alle immagini in movimento in uno spazio espositivo. La nostra relazione principale con le immagini e con i video oggi è mediata soprattutto dai computer e dagli schermi dei nostri cellulari. Una relazione spesso solitaria e passiva, in cui la nostra retina riceve una miriade di stimoli eterogenei e poco selezionati. In altri contesti invece, come al cinema, le modalità di fruizione seguono uno schema ormai codificato: si entra in una sala con le luci accese, ci si siede con una visione frontale e fissa dello schermo, le luci si spengono quando parte la proiezione e ci si alza alla fine.
Un rituale collettivo straordinario, ma molto diverso da quello che si vive in una mostra, dove si entra ad esempio senza sapere se il film è all’inizio o alla fine. L’interesse degli artisti per il potenziale dello spazio espositivo nasce proprio da questa esperienza diversa: si può sfruttare la sincronicità di più proiezioni, ci si relaziona a corpi nello spazio e a distanze variabili che influenzano la percezione dello schermo, del suono e degli altri elementi immateriali, come la luce. La mostra Nebula voleva amplificare e indagare queste possibilità. Ad esempio, nell’opera di Basel Abbas e Ruanne Abou-Rahme, gli schermi si smaterializzano, e le immagini occupano lo spazio architettonico nella sua interezza. Nel caso di Basir Mahmood, l’opera che apre la mostra, lo schermo frammentato in tre parti non offre mai un punto di vista univoco, offrendo sempre una visione parziale dell’immagine.
In questo senso quindi la mostra offre al pubblico un nuovo modo di percepire le opere video. Alcune installazioni sembrano avere una componente coreografica nel modo in cui si alternano, il che si riflette anche nella scelta degli elementi allestitivi, che offrono un certo grado di comfort al pubblico. C’è un invito esplicito a questo tipo di fruizione, che richiede un tempo di attesa più lungo rispetto ai contenuti a cui siamo abituati?
Mi fa molto piacere sentire le tue osservazioni, perché riflettono il nostro tentativo di creare delle condizioni espositive e percettive che permettano al pubblico di rallentare. Venezia, durante la Biennale, è dominata da una spropositata voracità e bulimia visiva. Nebula è stata concepita e allestita in modo tale da favorire la fruizione di un medium che invece richiede tempi lunghi e dedizione da parte del pubblico. Questo si riflette non solo nel set design naturalmente ma anche nella sequenza delle opere in mostra. È importante, ad esempio, alternare video con durate e ritmi differenti. Penso ad esempio ad opere con una narrazione molto dilatata, come quelle di Basir Mahmood o Giorgio Andreotta Calò, che si alternano con opere più performative e lineari come quella di Ari Benjamin Meyers o di Christian Nyampeta.
A ciascun artista corrisponde un proprio spazio. Come avete deciso la collocazione delle opere all’interno della mostra e quali sono stati i criteri principali che avete seguito?
I punti di partenza per costruire la narrazione della mostra sono lo spazio, la pratica degli artisti e il progetto che ci propongono. Quando Diego Marcon ci ha presentato l’idea di “Fritz”, è stato subito chiaro ad esempio che quest’opera doveva chiudere la mostra e non poteva essere collocata al centro o all’inizio del percorso espositivo. Inoltre per Diego il suono è una componente fondamentale del lavoro e la sua collaborazione con il compositore Federico Chiari ci ha fatto subito pensare alla Sala della Musica, costruita nel Seicento e concepita come una cassa armonica naturale. Altre scelte sono state dettate dalle necessità specifiche degli artisti, come nel caso di Basir Mahmood nella Chiesa Santa Maria dei Derelitti, che fin da subito aveva immaginato un’installazione di scala monumentale. Quasi tutti gli artisti hanno visitato lo spazio subito dopo essere stati invitati a partecipare e, seguendo anche i nostri suggerimenti, hanno scelto le stanze per realizzare i loro interventi molto prima di cominciare a concepire le opere. Ad esempio, abbiamo invitato Basel Abbas e Ruanne Abou-Rahme pensando già che il loro intervento si sviluppasse su più ambienti. È quindi stato molto naturale e immediato per loro scegliere le sei sale nuove dell’ex-ospedale tra le varie opzioni che gli avevamo proposto. Un altro caso significativo è Giorgio Andreotta Calò, che ha addirittura prodotto un progetto girato all’interno degli spazi dell’Ospedaletto. Collocare l’opera a metà della mostra fa sì che il pubblico sia in grado già di riconoscere alcuni degli spazi che si vedono al suo interno, amplificandone l’esperienza sospesa tra memoria e percezione del luogo. In questo dialogo continuo tra curatori e artisti è stato naturalmente fondamentale anche il ruolo degli architetti Ippolito Pestellini Laparelli e Francesca Lantieri di 2050+, che fin dall’inizio del processo hanno garantito che ogni scelta fosse accuratamente ponderata e integrata nel progetto espositivo.
Qual è il filo conduttore che lega l’attuale mostra con Penumbra, del 2022, e come influisce in generale sul vostro approccio curatoriale?
Sicuramente la metodologia, che per noi è molto importante, e si basa sulla volontà di continuare a utilizzare lo spazio come un luogo di riflessione sul potenziale delle immagini in movimento. Questo è un aspetto che caratterizza il nostro approccio curatoriale e si riflette sulla relazione che l’intervento degli artisti trova con l’edificio stesso. L’Ospedaletto è un complesso architettonico con un grandissimo valore storico-artistico, non è un semplice white cube. Le sue pareti hanno stratificazioni di memoria che non possono essere ignorate. Per noi è stato molto importante, come due anni fa, lavorare con artisti che avessero una sensibilità nei confronti di questo luogo e che potessero trarne ispirazione. L’altro aspetto importante è sicuramente la modalità con cui lavoriamo con gli artisti, accompagnandoli in tutte le fasi della commissione: dallo sviluppo creativo fino all’installazione dell’opera.
Secondo te c’è qualcosa che il settore dell’arte dovrebbe fare per valorizzare maggiormente le opere video?
Purtroppo, da un punto di vista allestitivo a mio avviso il video è ancora il medium più trascurato nelle mostre. Troppo spesso, anche in mostre importanti, le immagini in movimento sono esposte in condizioni che limitano drasticamente l’esperienza dell’opera. Mi ricordo in una Biennale di qualche anno fa un video di quasi novanta minuti esposto in una zona di passaggio su un monitor senza seduta. La versatilità del video, che lo rende facilmente fruibile anche attraverso le piattaforme online, rischia spesso di essere fraintesa e banalizzata. Le mostre di video, soprattutto se con installazione di grande formato, sono in realtà tra le più complesse (e costose!) da allestire correttamente. Mi piace sperare per il futuro che, nonostante le limitazioni dei mezzi a disposizione, si possa prestare maggiore attenzione alle scelte che influenzano il modo in cui il pubblico si relaziona alle opere. Per esempio, come dicevi tu, una seduta comoda o adeguata può già fare la differenza. Nella stanza di Saodat Ismailova per esempio, dove l’artista aveva previsto grandi cuscini a terra, abbiamo anche aggiunto una panca sul fondo della stanza per offrire un’alternativa a chiunque per età o fisicità non possa sedersi a terra. Pensare a questi piccoli accorgimenti permette di relazionarsi in maniera diversa con l’opera e non sempre questo dipende dal budget a disposizione, ma banalmente dalla comprensione di un medium che richiede tempo e attenzione. È importante adottare queste strategie perché dimostrano cura e rispetto per le opere degli artisti e per il pubblico.