Sono molto preoccupata per la sete estiva di Angelo Bonelli, protagonista di quella che era già la mia rubrica preferita del giornalismo italiano, e ora è anche quella col più micidiale tempismo.
“A casa di” è una rubrica delle pagine romane di Repubblica, ed è proprio quel che sembra dal titolo: ogni settimana vanno a casa d’un personaggio pubblico, certi dell’unica certezza di cui si possa essere certi oggi, quella della scomparsa del senso del ridicolo, e gliela fotografano, e lo intervistano su questioni di arredo e altre amenità.
Ovviamente Repubblica (le pagine locali, poi) non è Architectural Digest, e le celebrità italiane non sono Marella Agnelli: non c’è una settimana in cui la casa fotografata non sia mostruosa, tinelli tristi, cuscini imbarazzanti, buone cose di pessimo gusto come se l’amica di nonna Speranza fosse preda dello stesso equivoco che successivamente ha infelicitato Carrie Bradshaw – dovevano essere monito, sono diventate modello.
A vent’anni avevo una cotta assoluta per Massimo Cacciari. Ricordo come me la fossi trovata davanti ieri la sua faccia quando, stava uscendo da un convegno di Micromega, lo fermai dicendogli: professore, ho sognato che facevamo una figlia e la chiamavamo Elettra (eroico, non chiamò la polizia, né il reparto psichiatrico).
Tutto ciò che diceva e faceva mi pareva magnifico, in particolare un’intervista che a un certo punto diede a Gian Antonio Stella, in cui gli raccomandava di non virgolettargli parole che non aveva mai usato, e quello ligio riportava (avevo vent’anni: non sapevo che, data la disinvoltura nel rapporto dei giornalisti italiani coi virgolettati, quella preoccupazione che mi pareva di dotta acribia avrebbe potuto avercela un qualunque calciatore).
In quell’intervista Stella narrava che la prova del distacco cacciariano dalle cose terrene stava nel suo tenere la spina del frigorifero staccata. Erano d’altra parte gli anni in cui subivo anche il fascino di Carmen Llera, che nei suoi libri e nelle interviste che dava raccontava che lei in frigo teneva solo una bottiglia di champagne (nessuno le chiedeva mai di che marca: noi emule facevamo una vita faticosissima).
Adesso che mi sono fatta anziana, il frigo di Ostia di Angelo Bonelli, staccato perché lui, spiega alle pagine romane di Repubblica, si divide tra Ostia e Rovereto (nessuno gli chiede notizie del frigo di Rovereto: il giornalismo d’inchiesta non è più quello d’un tempo), e anche perché lui non conserva, lui cucina e mangia, quel frigo mi preoccupa non poco.
Dice Bonelli che compra e subito cucina pesce: con cosa lo accompagna? Vino bianco caldo? È di quegli uomini mai cresciuti che pasteggiano a Coca Cola e ne prende una lattina già fredda al bar all’angolo per complicarsi la vita? O forse gli hanno staccato l’elettricità perché la casa di Ostia è occupata? Gliela riattaccherà il cardinal Krajewski, che come i lettori con più memoria ricorderanno cinque anni fa la riattaccò a un palazzo romano occupato? (Con gran sconcerto di Salvini che però difendeva l’occupazione d’un altro palazzo romano da parte di Casa Pound: chissà cos’avrebbe detto Gaber delle occupazioni, di destra o di sinistra?).
Se la casa di Bonelli pubblicata la settimana scorsa su Repubblica fosse occupata, sarebbe dimostrazione che la vita è sceneggiatrice. La settimana scorsa è infatti stata quella dell’affitto di Ilaria Salis, il cui curriculum consiste nell’incarnare quel dialogo di “Manhattan” in cui qualcuno evocava un pezzo satirico del New York Times sui neonazisti, e il personaggio di Woody Allen diceva sì, va bene, la satira, ma secondo me se andiamo lì con dei mattoni e delle mazze da baseball capiscono meglio.
Prima di prendere sul serio Woody Allen, e molto prima di trainare con le sue molte preferenze il partito di Bonelli e Fratoianni, pare che Ilaria Salis abbia occupato senza pagarne l’affitto una casa popolare abbastanza a lungo da avere parecchi debiti. (Lei dice che in realtà l’ente bluffa e non ha mai controllato se negli anni successivi lei se ne fosse andata; dice che fanno sempre così, e se sia vero o no non lo approfondiscono i giornalisti, mica penserete lo faccia io).
A qualcuno che su Twitter (o come si chiama ora) gli chiedeva come mai non avesse pagato l’affitto alla sua bambina quarantenne, il mio caratterista del cinema italiano preferito, Roberto Salis, ha risposto: «Perché mia figlia ritiene che non fosse giusto che lei facesse una vita agiata grazie alle disponibilità della famiglia e quindi non ha mai voluto il nostro aiuto economico! Si chiamano IDEALI che lei immagino non sappia cosa siano!» (maiuscole, puntesclamativi, tempi verbali: tutto come nell’originale).
Quindi non pagare l’affitto per alcuni è una cosa che ti accade se ti licenziano o simili, e per altri è un ideale. D’altra parte nessun ideale è ideale per tutti, non sarò certo io a cavillare. Ma Ilaria Salis ha quarant’anni: lasciamo parlare lei, invece di chiedere a papà. Venerdì la signora Salis pubblica la propria versione dei fatti nel formato che piace ai giovani: in una serie di schermate di Instagram (slide, le chiamano i giovani; diapositive, praticamente).
Ilaria Salis, punto d’incontro tra la sinistra radicale e Casa Pound, rivendica l’occupazione per diverse diapositive, nell’ultima dice «mai più gente senza casa, mai più case senza gente!» (chissà com’è orgoglioso di quel puntesclamativo il suo papà), e il ceto medio freme: oddio, la Salis ci vuole occupare la casa al mare? E l’appartamentino che abbiamo comprato per quando il puccettone farà l’università e per ora è vuoto? È panico, nella repubblica fondata sulla casa di proprietà. Sui social però vale la solita regola: qualunque scemenza sembra meno scema non appena arrivano i commentatori, che dicono tali stronzate da far sembrare chi ha scritto il post originale sempre il figlio naturale di Christopher Hitchens e Madonna Ciccone.
Quelli che oddio ci vuole occupare la villetta a Pinarella di Cervia. Quelli che ha ragione lei, voi non capite l’emergenza abitativa. Quelli che aboliamo la proprietà privata (ma poi se gli appoggi una piuma sul cofano della macchina ti minacciano di morte). Quelli che a occupare sono sempre i figli di papà lasciando i veri poveri senza case popolari. Quelli che è giusto occupare a Milano che è carissima (ma i differenziali retributivi come vi permettete anche solo d’immaginarli). Quelli che Ilaria Salis che non paga l’affitto è come Rosa Parks che si siede nei posti dei bianchi (se pensate che stia inventando, è perché sopravvalutate la fantasiosità delle mie analisi storico-politiche, ma soprattutto sottovalutate quella di Vongola75).
Intanto Nicola Fratoianni – dello stato del cui frigo non siamo purtroppo al corrente, e ciò costituisce grave emergenza informativa – va in radio e dice che esiste il diritto all’abitare ed è superiore ai capricci economici dei padroni di casa (sintesi mia). Alla prima domanda, quella sulla Salis, risponde testualmente «io penso che il movimento per la casa in questo paese sia fatto di tante esperienze diverse», e inspiegabilmente non aggiunge «anche di quelle di chi non vuole chiedere i soldi ai genitori».
Ma non di chi rifiuta – causa ideali – la paghetta voglio sapere io, bensì della corrente di sinistra che va da Massimo Cacciari a Angelo Bonelli, quella che a Carmen Llera non può offrire uno schiumante gelato perché ha il frigo staccato; quella che non si formalizza a occupare col rischio che ti stacchino l’elettricità, perché tanto il frigo non lo usa: che te ne fai, corrente di sinistra, della corrente elettrica?
Voglio sapere se tutto questo costituisce la realizzazione del programma politico steso, in “Sapore di mare 2”, dalla Tea Guerrazzi, il più formidabile personaggio femminile che il cinema italiano abbia prodotto negli ultimi quarant’anni. Voglio sapere se, tra casa Bonelli e casa Salis e casa Cacciari, rimbalza lo slogan «Pizza fredda e birra calda: tutto a rovescio, come nella vita».