Stavo cercando di fare Calasso, e all’improvviso mi sono ritrovata a fare Provenzano.
È successo alle cinque di pomeriggio, l’ora in cui il sole batte di traverso sul mio salotto, scolorendo divani e Adelphi, e permettendomi di leggere senza luce elettrica (attività comunque impossibile, giacché le luci di casa mia sono impostate sulla modalità Blanche du Bois, quella penombra rosata che rende equivocabile la mia pelle per quella d’una trentenne ma impossibile l’impresa di ritrovare una forcina sul parquet; insomma, in casa mia si può leggere solo finché la luce naturale lo permette).
È successo mentre leggevo il nuovo libretto azzurradelphi scritto da Roberto Calasso, che s’intitola Come ordinare una biblioteca, e se vi mettessi qui una foto della libreria che ho di fronte, o dei mucchi di libri sul tavolino alla sinistra del divano su cui siedo, o dei cumuli di libri che gravano sul divano di fronte, o dei pericolanti ammassi di libri sui tavoli che separano il mio divano e la libreria di fronte, o dei libri misti a dvd nella libreria a destra, insomma se pubblicassi una foto della stanza in cui mi trovo ora, che pure è la meno stipata della casa, e la meno entropica, e la meno «e questo che ci fa qui, non lo vedo da vent’anni», ecco, se non temessi che chiamaste la buoncostume e avessi il coraggio d’un’immagine, allora capireste quanto mi serve il nuovo Calasso, ma sono vile e quindi ripiegherò su mille parole.
Innanzitutto vorrei ringraziare Calasso per avermi fornito la risposta perfetta nelle conversazioni con (altri) editori. Dovete sapere che è mia convinzione che gli italiani (tranne Adelphi, che il dio degli arredatori d’interni ce li conservi) facciano le copertine più brutte del mondo. Non so quando sia cominciata, ho certi libri anni Settanta e persino Rizzoli faceva belle copertine, poi dobbiamo aver perso il senso estetico, sarà successo quando abbiamo avuto tutti l’acqua corrente in casa, saranno i vaccini, sarà la tv a colori, vai a sapere.
Fatto sta che, essendo io portatissima a farmi ben volere dagli interlocutori, appena mi trovo con qualche lavoratore editoriale la mia prima frase è sempre: Ma perché fate delle copertine così orrende? La loro risposta in genere è: Siamo legati alle collane.
(Una volta per un mio libro volevo una copertina tipografica, sono quelle di solo testo che è difficile fare brutte pure se hai il senso estetico d’un grafico italiano, sono quelle solo col nome dell’autore e il titolo di cui è piena l’editoria americana, sono la vera ragione per cui i turisti vanno da Strand, la libreria di New York: a guardare copertine. Se portate un turista a guardare copertine Feltrinelli o Mondadori, vi denuncia per danno biologico. Comunque, chiesi una copertina tipografica e la editor barcollò e quasi svenne esalando: Ma la collana. La collana prevedeva vai a sapere cosa, un disegno, una foto, uno svolazzo. Non ebbi la copertina tipografica).
Insomma, siccome Calasso nel volumetto azzurro sta spiegando non come fare l’editore ma come fare quello coi libri in casa (dovrei dire “il lettore”, ma mi pare di esagerare), e quindi come organizzarli sensatamente, a lui la collana, che rende riconoscibili i libri d’uno stesso editore, sembra non un problema ma un’opportunità; quindi, quando parla di quei senzaddio e senzacollana di editori americani e inglesi butta lì un «così come alcuni filosofi ritengono che la grazia sia una questione non di loro competenza». Che entra subito nel mio manuale di conversazione, in versione ridotta come fossi una che ha così tanto studiato da dare per scontato il contesto: «Siamo legati alle collane», «D’altra parte cosa sarebbe Calvino senza la grazia». A quel punto l’interlocutore capisce «Italo», la conversazione precipita verso il disastro, e il giorno dopo abbiamo entrambi una serata da raccontare.
Nel ringraziarlo, vorrei precisare che Calasso è un pervertito. Uno che mette delle veline, dei lenzuoli, dei qualcosa che lui chiama “pergamino” attorno ai libri. Mica per proteggerli, come quelle orrende sovraccoperte di plastica in cui avvolgevamo i libri di scuola (le protoadelphiane tra noi li incartavano con deliziosa carta da pacchi), macché: lui lo fa per ritrovarli con più difficoltà. «Il pergamino fa sì che siano molto meno riconoscibili. E questo allevia chi vive in mezzo a loro – e non vuole essere obbligato a percepire in qualsiasi momento la presenza incombente di un certo libro». Un pazzo. Un masochista. Uno che, se lo emulassi, mi priverebbe dell’unica risorsa delle disordinate: la memoria fotografica.
Stavo riflettendo su perversioni e pizzini (come quando riporta, Calasso, Valéry che scrive a un’amica «oggi c’è un numero tale di riviste che non occorre certo aggiungerne un’altra», ed è il 1924), quando la telefonata d’un amico m’ha fatto precipitare da Calasso a Provenzano.
L’amico non aveva neanche letto di Provenzano che s’è rifiutato di partecipare a un’iniziativa in cui era previsto parlassero solo uomini; mi chiamava perché sta organizzando dei reading di testi comici, e si è reso conto che non hanno in programma testi di donne, com’è possibile, solo tu puoi salvarci. Non voleva un mio testo (giustamente mi considera solo decorativa e non spiritosa): voleva dei suggerimenti.
E io allora ho superato correnti gravitazionali, scavalcato mucchi d’Adelphi sul parquet, e sono arrivata là dove la mia più preziosa risorsa (la memoria fotografica) ricordava d’aver visto una raccolta di Natalia Aspesi. Non si trova più – gli dico – è del 1973, te la presto. Chi altro, ci chiediamo. Beh, certo, Franca Valeri. E poi? Le vuole italiane, quindi scartiamo Nora Ephron e Carrie Fisher, e tra di noi si stende un silenzio denso di: ma possibile che le uniche italiane spiritose stiano per compiere una 91 e l’altra cento anni?
Guardo i libri fortunati, quelli sugli scaffali. C’è uno scaffale de Beauvoir, non esattamente una che abbia scritto la descrizione della Luisona; uno scaffale Carmen Llera e uno Lidia Ravera (ehi, vengo forse a sindacare le vostre perversioni, io?), non esattamente due che abbiano illustrato la prevalenza del cretino. Trovo, negli scaffali dei libri dei miei vent’anni, alcune autrici spiritose ma minori, nessuna che faccia ridere quanto Serra quando, nei suoi 44 falsi, parodiava la prosa sincopata della Fallaci. Ma, soprattutto, tutte che parlano di uomini. Tutte che scrivono in-quanto-donne del loro essere donne. Perché nessuna parla della brioche invecchiata nella vetrina nel bar, dei tic della prosa degli altri, insomma d’altro che non sia la quindicennitudine dei rapporti tra i sessi?
Ieri su Repubblica l’intervista all’eroico Provenzano – la prossima volta che dareste un rene pur di non partecipare a un convegno, ricordatevi di trovare una scusa che vi faccia apparire eroici – era accompagnata da un corsivo proprio di Michele Serra, che a un certo punto diceva «Non si invitano le donne perché, banalmente, ci si dimentica che esistono». Ho passato un pomeriggio a provare a ricordarmene, giuro. Le ho cercate. Non c’erano neanche pergamini a coprirle, ma quelle che stavano sui miei scaffali erano tutte dolenti. Ho cercato il calassiano «piccolo atollo di argomenti affini», ma quello delle femmine con senso dell’umore non c’era. O forse è la luce di taglio, che a quell’ora illumina solo atolli di Manganelli e di Parise. La luce, quella maschilista.