La polemica innescata dal senatore leghista Claudio Borghi – il Toninelli della Lega – non meriterebbe nemmeno di essere ricordata, se non per riderne. Dopo essere arrivato a chiedere le dimissioni di Sergio Mattarella nel giorno della festa della Repubblica per un problema di comprensione del testo (Mattarella aveva detto semplicemente che con le elezioni del parlamento europeo ci apprestavamo a celebrare la sovranità europea), la mente economica del salvinismo ha confermato tutto: «Mi dica chiunque se la nostra Carta contempli cessioni di sovranità». In effetti potrebbe dirglielo chiunque (o almeno chiunque l’abbia letta), ma il gioco è bello quando dura poco: quando il saggio indica gli attacchi al Capo dello stato, lo sciocco guarda Borghi.
L’importanza dell’incidente non sta nelle sue parole, e nemmeno nel fatto, pure in sé gravissimo, che a rilanciarle sia stato il vicepresidente del Consiglio, Matteo Salvini, prima di una molto tardiva e molto parziale correzione. Il punto è che al delirante attacco del suo vice al Quirinale, nonché ai principi fondamentali – costituzionali – della nostra adesione al progetto europeo, è seguito un lungo silenzio della presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, nonché di tutte le massime cariche dello Stato, dal meloniano Ignazio La Russa (che se l’è cavata in extremis con un blando giudizio di inopportunità) al salviniano Lorenzo Fontana (di cui si sono perse le tracce). Un silenzio che è difficile giustificare con la storiella dell’oscuro lavoro condotto dietro le quinte per convincere Salvini a ritrattare, non foss’altro per quello che Meloni ha detto in chiaro subito dopo.
Le polemiche sul 2 giugno dovevano essere evitate e «sono stata molto contenta che Salvini abbia chiarito», ha detto in serata Meloni a Quarta Repubblica, tuttavia, «è la sinistra che non rispetta il Colle tirando il presidente della Repubblica nell’agone della politica, per raccontare di presunte divergenze con il governo». Essendo note anche ai sassi le divergenze, perlomeno dal giorno in cui Meloni ha fatto attaccare Mattarella da una nota di partito sul caso delle manganellate agli studenti di Pisa (anche lì seguirono due giorni di ridicole smentite, peraltro), si capisce che l’affermazione può essere letta anche in un senso più minaccioso. Non per niente il riferimento era alle polemiche con l’opposizione sulla riforma del premierato, su cui Meloni continua a ripetere, mentendo, di non avere toccato i poteri del Quirinale.
Ma l’episodio è ancora più significativo perché segue di due giorni appena un suo attacco, letteralmente inaudito, alla Cei, in risposta a dichiarazioni che sarebbe eccessivo definire blandamente critiche, sempre a proposito della riforma costituzionale: «Non so cosa esattamente preoccupi la Conferenza episcopale italiana, visto che la riforma non interviene nei rapporti tra Stato e Chiesa. Ma, con tutto il rispetto, non mi sembra che lo Stato Vaticano sia una repubblica parlamentare, quindi nessuno ha mai detto che si preoccupava per questo. Facciamo che nessuno si preoccupa».
Anche qui, eccepire sulla differenza tra Cei e Vaticano sarebbe come pretendere di spiegare il diritto comunitario a Borghi. È chiaro qual è il centro su cui vanno a convergere tanti singolari avvenimenti, cui si potrebbero aggiungere i numerosi episodi riguardanti l’informazione, dalla Rai alle sorti dell’agenzia Agi nelle mire del parlamentare-editore Angelucci (parlamentare leghista curiosamente presente al comizio di chiusura del partito concorrente, Fratelli d’Italia, in elezioni proporzionali), passando per la Buchmesse, per finire con il licenziamento in tronco, giusto ieri, del direttore del Messaggero, Alessandro Barbano, ad appena tre settimane dalla nomina, nel giorno stesso in cui scriveva nel suo editoriale – pensate un po’ – che «è giusto dire, come fa il Capo dello stato, che con il voto dell’8 giugno consacriamo la sovranità europea». Ma naturalmente sono tutte coincidenze e non c’è niente di cui preoccuparsi. Del resto, Meloni stessa al suo ultimo comizio lo ha detto chiaramente: «Il nostro motore sarà sempre l’amore, e non l’odio». Come diceva qualcuno – già, chi era più che lo diceva? – molti nemici, molto amore.
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