Qualche giorno fa, alla Libreria Centofiori di Milano, nel corso della presentazione del romanzo della scrittrice magiara Alaine Polcz, “Donna sul fronte” (Edizioni Anfora), che racconta le violenze e gli stupri commessi dai soldati dell’Armata Rossa durante la “liberazione” dell’Ungheria alla fine della Seconda Guerra Mondiale, a un certo punto ha chiesto di intervenire un giovane, che a prima vista poteva essere scambiato per un promettente studioso di letteratura mitteleuropea e si è invece rivelato, fin dalle prime parole, l’emissario di una intimidazione politico-mafiosa così sinistramente burocratica da apparire più bizzarra che spaventevole: «Io rappresento il consolato generale della Federazione russa».
Aperta la cartellina, il funzionario consolare ha tratto un papello e ha iniziato a leggere una requisitoria contro “Donna sul Fronte”, dolendosi che non prestasse un buon servizio alla causa della «amicizia tra i popoli d’Europa» e non aiutasse a «proteggere le generazioni future dagli errori del passato e dalla guerra». Contro la «visione faziosa e preconcetta per denigrare la Russia» il giovane diplomatico ha detto che i crimini addebitati nel libro ai russi erano come minimo da suddividere con i rumeni e, per la quota russa, con gli ucraini, allora parte dell’Armata Rossa e che in ogni caso gli ungheresi «dovrebbero essere grati perché è stata l’Unione Sovietica a liberare questo Paese dall’aggressione nazista e dagli invasori tedeschi: era una liberazione, non una occupazione».
Poi è passato a elencare le gravi complicità degli ungheresi con l’occupante nazista, lodando la durezza con cui Stalin ha punito i soldati sovietici responsabili di crimini di guerra e ha concluso dicendo che operazioni che creano una «immagine brutta della Federazione russa e della nostra storia» e che la «riscrittura della storia e la demonizzazione dei russi finirà molto male».
Da un certo punto di vista, verrebbe da dare ragione a questo giovane pretino dell’inquisizione postsovietica. La riscrittura della storia russa, ma nel senso opposto, quello della relativizzazione del pericolo rappresentato dalla trasformazione di un regime totalitario nel servizio d’ordine di una cleptocrazia mafiosa, è finita molto male e dopo quasi un quarto di secolo di putinismi affaristici e di russofilie ruffiane le metastasi di questo cancro politico globale hanno infiltrato a tal punto le cellule delle nostre democrazie, dall’una e dall’altra parte dell’Atlantico, da apparire come un fenomeno di natura e perfino di salute, come un nucleo di ragioni magari ravvolto in una inestricabile matassa di torti, ma tutt’altro che arbitrario e mostruoso nella sua realtà politica.
Ovviamente in questo quarto di secolo di amicizia sporca e interessata coi capibanda del Cremlino si sono accumulati tonnellate di kompromat – una specialità della casa – che rendono le decisioni definitive improbabili e dolorose, quando non impossibili e che obbligano, pur nel riallineamento euro-atlantico dell’Italia, il Paese dell’occidente europeo più mediocremente putiniano a non rompere i contatti, a non esagerare nei toni, a lasciare una porta aperta perché, quando passerà la nottata e magari Donald Trump tornerà alla Casa Bianca, si possa tornare alla vecchia normalità, con un pezzo di Ucraina di meno e un pezzo di Russia di più.
Quanto sia atteso e ambito il ritorno alla status quo ante lo dimostra il fatto che una intimidazione così diretta a una piccola libreria e a un piccolo editore coraggioso non abbia fatto notizia e che il capo del servizio di racket politico-diplomatico russo, l’Ambasciatore Alexey Paramonov, sia ancora Cavaliere al Merito della Repubblica italiana e né a lui, né a Dmitrij Peskov e a una ventina di maggiorenti della cerchia putiniana le onorificenze italiane siano mai state revocate, neppure dopo il 24 febbraio 2022.