Il nuovo ambasciatore russo in Italia è Alexei Paramonov e sostituirà Sergey Razov, che il ministro degli Esteri Antonio Tajani rimprovera ex post di avere ecceduto in «giudizi politici» contro l’Italia. Il gradimento accordato al nuovo ambasciatore non sembrerebbe allora giustificato, visto che Paramonov, ex console a Milano e recentemente Capo del Dipartimento del ministero degli Esteri per l’Europa meridionale, si è reso responsabile di attacchi ben più violenti di quelli di Razov, come quando, nell’aprile 2022, minacciò l’Italia di «conseguenze irreversibili» se avesse seguito la Francia sulla strada delle sanzioni economiche alla Russia per l’invasione dell’Ucraina.
Che Paramonov in Italia abbia degli amici non c’è dubbio, perché con Giuseppe Conte a Palazzo Chigi è diventato prima Cavaliere (nel 2018) poi Commendatore (2020) dell’Ordine della Stella d’Italia, due onorificenze distribuite largamente negli ultimi anni, da governi di ogni colore, ai principali politici, diplomatici e oligarchi della cerchia putiniana. Attestati di amicizia e patenti di complicità. Sul sito di Radicali italiani se ne è fatto uno scrupoloso censimento, denunciandole per tempo all’attenzione non particolarmente vigile della politica italiana.
Dopo il 24 febbraio 2022 molte di queste onorificenze, concesse tutte dopo il 2014, cioè dopo la prima aggressione russa all’Ucraina, l’annessione della Crimea e il sostegno ai separatisti del Donbas, sono state revocate per indegnità, come ad esempio quelle del primo ministro Mikhail Mishustin e del vice primo ministro e ministro dell’industria e commercio Denis Manturov. In modo decisamente sospetto, ma purtroppo non incomprensibile, la revoca non ha però colpito alcuni dei principali protagonisti e propagandisti della guerra di Vladimir Putin, in particolare quelli che provenendo dai ranghi della diplomazia russa si sono visti trasformare l’immunità funzionale in una sorta di immunità politica. Paramonov è uno di questi.
Essere un ambasciatore russo, a quanto pare, è in Italia un riconosciuto lasciapassare per la propaganda del massacro e un certificato di rispettabile “moderazione”, per grottesco che appaia evocare questa virtù a confronto della smisuratezza criminale cui essa rende diligentemente servizio. Però Paramonov non è neppure il principale beneficiario dell’indulgenza italiana, né il più imbarazzante.
Il caso più emblematico è quello del Tarek Aziz dell’operazione speciale, quel Dmitry Peskov che da un anno e due mesi giustifica con scandalizzata e recriminatoria acribia le ragioni della “reazione” russa, così come l’azzimato cattolico caldeo trent’anni prima aveva giustificato in termini “difensivi” l’invasione del Kuwait e l’uso delle armi chimiche contro i curdi da parte di Saddam Hussein, di cui si sforzò di rappresentare il volto presentabile, esattamente come Peskov prova a fare oggi con Putin.
Di Tarek Aziz qualcuno ricorda le entrature nel mondo politico cattolico, anche con sponde ecclesiastiche. Di Peskov possiamo dare per certe entrature trasversali in tutto quel coté politico-economico, che ha intessuto con Putin relazioni oscillanti tra il realismo cinico e l’affarismo corrotto e che ha reso per vent’anni l’Italia – quella berlusconiana e quella prodiana, quella tecnocratica e quella anti-politica – la quinta colonna euro-occidentale del regime putiniano.
Infatti anche Peskov è stato insignito dell’alta onorificenza di Commendatore dell’Ordine della Stella d’Italia, concessa nel 2017 dal Capo dello Stato Sergio Mattarella, con il placet del ministro Alfano, in una cerimonia a Mosca officiata dall’allora ambasciatore Cesare Maria Ragaglini, che ha avuto presumibilmente qualche ruolo in quella scelta, come nella sua difesa ad ampio spettro delle ragioni del Cremlino, culminata in una storica intervista al Corriere della Sera, in cui invitava l’Italia a «rispettare» la Russia e a riconoscere che Putin aveva «ridato ai russi stabilità, ordine, benessere e soprattutto orgoglio patriottico» e proseguita sullo slancio, dopo il pensionamento, con il meritato incarico di vice-presidente della banca di stato russa Veb.
Perché anche Peskov, come il meno conosciuto Paramonov, dopo il 24 febbraio 2022 è scampato alla revoca dell’onorificenza per indegnità? Perché né questo, né, a onore del vero, il precedente esecutivo hanno attivato la procedura di revoca prevista dall’articolo 9-ter del decreto legislativo n. 812 del 1948, che è affidata alla esclusiva responsabilità del governo e non a una decisione autonoma del Capo dello Stato?
Il perché dev’essere analogo a quello per cui il magnate russo Artem Uss è evaso dai domiciliari (con braccialetto elettronico) nel milanese e, soprattutto, la sua evasione pare non avere fatto fatto né caldo, né freddo a tutti gli alti papaveri della sicurezza nazionale.
Malgrado le posizioni ufficiali dei governi Draghi e Meloni, la strategia italiana verso la Russia continua a galleggiare su un mare torbido di compromissioni e di equivoci, tutti segnati dalla speranza ingenua o maligna di tornare al mondo di prima e di dissolvere con un abracadabra le conseguenze di quel turning point epocale che è stata l’aggressione russa all’Ucraina.
Vorremmo scrivere che speriamo che sull’onorificenza a Peskov Tajani faccia quello che sarebbe decente e tardivo fare, proporne la revoca e che, di fronte alla sua inerzia, provvedesse direttamente Meloni. Ma sinceramente neppure lo speriamo.
In questo articolo abbiamo scritto che l’onorificenza concessa a Peskov nel 2017 era quella di Commendatore dell’Ordine della Stella d’Italia. Ci siamo sbagliati, era quella, pure più prestigiosa, di Commendatore dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana. Ovviamente non cambia nulla né rispetto al senso dello scandalo, né rispetto alle procedure di revoca, che pongono la responsabilità dell’iniziativa in capo all’esecutivo e in particolare, in questo caso, al Presidente del Consiglio dei Ministri (art. 5 della legge 3 marzo 1951, n. 178).