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Ve la ricordate la trama de Il meraviglioso mago di Oz, il racconto di Lyman Frank Baum da cui è stato tratto il memorabile film con Judy Garland? Un uragano porta la giovane Dorothy Gale dal Kansas a una terra magica dove incontra il Leone codardo, lo Spaventapasseri senza cervello e l’Uomo di Latta senza cuore. Insieme raggiungono la Città di Smeraldo per chiedere aiuto al grande e potente mago di Oz. Ma alla fine del loro viaggio i quattro protagonisti scoprono che il mago non è affatto ciò che sembra: è in realtà un uomo normale dietro a un paravento che usa trucchi e illusioni per apparire potente. Non ha veri poteri magici, ma usa le sue abilità di prestigiatore e ventriloquo per mantenere l’illusione il più a lungo possibile.
Cambiando qualche nome e metafora, ricordando che il verde smeraldo non è solo il colore dei soldi, questa storia potrebbe essere il riassunto della politica ambientale di Ursula von der Leyen nei suoi cinque anni da presidente della Commissione europea: obiettivi ambiziosi, comunicazione puntuale, legiferazione ipertrofica. Ma sotto il vestito verde, niente di duraturo. I risultati ambientali sono inadeguati rispetto alle attese e nel tempo sono stati depotenziati finanziariamente rispetto alle premesse. E nei prossimi anni rischiano di rimanere dei gusci vuoti: formalmente bellissimi, ma non applicati a dovere dagli Stati membri.
Passata da anonima ministra della Difesa in Germania a presidente della Commissione grazie alla trovata politica di Emmanuel Macron, nel 2019 Von der Leyen ha colto lo spirito del tempo sintetizzando il movimento di protesta ambientalista di Greta Thunberg in tre parole facilmente digeribili dall’opinione pubblica: European Green Deal. Un’espressione felice che richiamava lo storico New Deal di Franklin Delano Roosevelt, capace di far uscire gli Stati Uniti dalla grande depressione economica degli anni Trenta del Novecento.
Allo stesso modo Ursula von der Leyen aveva promesso di ridurre entro gli anni Trenta del Duemila almeno il cinquantacinque per cento delle emissioni di gas a effetto serra rispetto ai livelli del 1990. Un obiettivo esorbitante, ma necessario per raggiungere la neutralità carbonica entro il 2050 e per mantenere l’aumento della temperatura globale al di sotto di 1,5°C rispetto ai livelli preindustriali. Per garantire questa transizione economica Von der Leyen aveva promesso di mobilitare (verbo usato dalla politica quando i soldi da investire sono più privati che pubblici) mille miliardi di euro in dieci anni.
Alcuni maligni l’avevano accusata di aver promesso l’irrealizzabile pur di conquistare il voto degli eurodeputati Verdi. Senza il loro sostegno la sua nomina non sarebbe stata ratificata dal Parlamento europeo. E forse in questo c’è del vero; ma nei primi anni del suo mandato Ursula von der Leyen ha fatto di necessità virtù politica, mandando un segnale chiaro agli attori del mercato sulla irreversibilità della traiettoria climatica dell’Unione europea, influenzando così le decisioni delle aziende e degli investitori e quindi anche le scelte dei consumatori. Il messaggio è arrivato forte e chiaro senza perdersi in acronimi incomprensibili o grigi tecnicismi tipici dei suoi predecessori.
Per un certo periodo Ursula von der Leyen è sembrata la politica più americana mai passata a Bruxelles: annunci chiari e con il giusto tempismo mediatico, nessun compromesso al ribasso, diversi miliardi stanziati e un certo narcisismo retorico che ha reso più facile il lavoro dei titolisti, regalandoci perle come: «Il nostro Green deal è il momento europeo dell’uomo sulla Luna». Per convenienza politica o per incrollabile fede ambientalista, non importa: la presidente è stata determinata nell’andare oltre le sue possibilità, alzando sempre di più l’asticella politica, mantenendo l’illusione di un cambiamento epocale e irreversibile.
Ursula von der Leyen ha sfruttato al massimo il potere esclusivo della Commissione di proporre nuovi leggi europee dando tanto lavoro da fare a Parlamento europeo e Consiglio dell’Unione (gli eurodeputati e i governi dei ventisette Stati membri), che in base ai trattati devono esaminarle, emendarle, approvarle o rifiutarle con diversi negoziati simili in sostanza (ma non nella forma) a quelli tra Camera e Senato italiani.
Il risultato più importante di questo processo è la legge europea sul clima, entrata in vigore nel luglio 2021, con cui Bruxelles ha reso giuridicamente vincolante l’azzeramento delle emissioni di gas serra entro il 2050. La Città di Smeraldo costruita da Von der Leyen è stata lastricata di altre buone intenzioni climatiche cementate dal pacchetto Fit for 55: la legge contro la deforestazione globale e il rafforzamento delle norme sull’uso del suolo e sulla silvicoltura per aumentare l’assorbimento di CO₂ dall’atmosfera; il potenziamento del Sistema europeo di scambio di quote di emissione (Eu Ets) e l’implementazione del Meccanismo di adeguamento del carbonio alle frontiere (Cbam) per prevenire la fuoriuscita di CO₂; l’introduzione del Fondo sociale per il clima per sostenere la transizione verso un’energia più pulita; le leggi sulle batterie più sostenibili e circolari; la legge per ridurre le emissioni di metano nel settore energetico e quella per la protezione e il ripristino della natura; l’adozione dei requisiti di ecodesign per prodotti sostenibili; le nuove regole sulla prestazione energetica degli edifici; le Norme Euro 7 per la riduzione entro il 2040 delle emissioni da camion, autobus e rimorchi ed entro il 2035 per gli autobus urbani. Ma anche il Net Zero industry act per far diventare l’Ue leader mondiale nelle tecnologie net-zero.
Sulla carta un capolavoro legislativo senza precedenti. Nessuno potrà mai contestare gli sforzi fatti da Ursula von der Leyen, ma è ampia la distanza tra il legiferare e il fare. La pandemia ha costretto la Commissione a deviare una parte dei finanziamenti europei previsti inizialmente per il Green deal, costringendola a un lavoro di taglia e cuci per far star dentro tutto nello striminzito budget Ue. Le aziende europee hanno chiesto alla politica di pensare al presente, posticipando il futuro ambientalista, e Ursula von der Leyen ha capito ancora una volta lo spirito del tempo (Zeitgeist è pur sempre una parola tedesca), cambiando l’agenda politica e inserendo il Green deal all’interno di un nuovo piano per risollevare l’economia europea: il Next Generation Eu.
La speranza è verde per antonomasia, molti hanno creduto che la pandemia fosse solo una parentesi antipatica e che una volta terminata avremmo ripreso il filo perduto della sostenibilità. Come in molti altri aspetti della nostra vita. E invece è arrivato il secondo ostacolo al Green deal: la Russia ha invaso l’Ucraina costringendo Ursula von der Leyen a togliere la mascherina per mettere l’elmetto da guerra. Il colore della sua presidenza è diventato verde militare. L’Ue ha ridotto l’importazione dei gasdotti russi aumentando la dipendenza dal Gnl americano.
Questi due imprevisti esterni hanno depotenziato il Green deal europeo rispetto alle ambiziose premesse, ma il vero stillicidio è stato (e sarà) tutto interno. Von der Leyen ha incontrato resistenza dentro la sua stessa famiglia politica, il Partito popolare europeo (Ppe) guidato dal connazionale Manfred Weber, che ha sognato per anni la presidenza della Commissione lasciando elegantemente il posto a Ursula dopo il veto di Macron, aspettando sulla riva del fiume il successo politico diventare rimpianto. Nel lavoro parlamentare il Ppe ha costantemente cercato di mitigare le regolamentazioni percepite come onerose per le imprese: dalle macchine a diesel alla catena di approvvigionamento, fino ai requisiti di risparmio energetico per i nuovi prodotti.
Nel suo congresso di Budapest, il Partito popolare europeo ha appoggiato a maggioranza la candidatura unica di Ursula per un secondo mandato, limitandone però l’iniziativa ambientalista con una gelida frase nel manifesto elettorale: «Il Green deal non è un’ideologia, come sostengono i Verdi o i Socialisti». Insomma, adelante con la transizione ecologica, ma con juicio. E il grado di giudizio lo calibrerà la prossima maggioranza del Parlamento europeo spostata più a destra e dove questa volta i Verdi rischiano di rimanere fuori non per loro scelta. Con la stessa furbizia politica del 2019, Ursula von der Leyen ha capito la direzione del nuovo vento e nel suo discorso di accettazione ha parlato pochissimo di clima e molto di politica estera, annunciando di voler creare un commissario Ue alla Difesa. Il timore è che in questi anni Ursula abbia creduto per prima nella transizione ecologica perché era il tema del quinquennio, ma ora che il mondo è cambiato quell’eredità politica potrebbe svanire.
Sono solo parole? Forse. Ma il fatto politico che fa temere un cambio di rotta è stato il clamoroso passo indietro fatto dalla Commissione europea a causa della protesta degli agricoltori europei: il ritiro della norma sull’uso sostenibile dei pesticidi (Sur) che aveva l’obiettivo di ridurre l’uso di agrofarmaci entro il 2030. La presidente che ha vissuto di gesti mediatici, parole chiave e tempismo ha mandato un pessimo segnale che non fa ben sperare per il futuro ambientalista.
Non tutto è perduto: gli obiettivi ambiziosi rimangono, così come le norme e il corposo impianto legislativo. Poi però bisogna applicarle e per farlo serve volontà politica. Purtroppo senza un Mago di Oz ad alimentare l’illusione di poter salvare il Pianeta, il Parlamento europeo rischia di diventare il Leone codardo a cui manca il coraggio (politico); gli agricoltori e le industrie potrebbero rivelarsi lo Spaventapasseri senza cervello (il green non è solo ideologia, ma anche economia) e il Ppe l’Uomo di Latta senza cuore per la causa ambientalista. E noi? La piccola Dorothy che dopo un uragano era finita nella città di Smeraldo, salvo poi svegliarsi dal sogno. «Nessun posto è bello come casa mia», diceva felice alla fine del film. Ma il clima era diverso.