2.661 sterline, cioè 3.153 euro. È questa la cifra media degli affitti nella capitale britannica, il quattro per cento in più rispetto alle 2.567 sterline di un anno fa. Gli inquilini fuori Londra pagano invece in media 1.314 sterline (1.577 euro) al mese, il sette percento in più rispetto al 2023. Più di tre anni consecutivi di aumenti vertiginosi degli affitti in tutto il Regno Unito significano che ora costa in media circa 500 sterline (592) in più al mese affittare una casa rispetto a un paio di anni fa.
Ma il problema non è solo il continuo aumento dei prezzi. C’è ancora un grande divario tra gli immobili in affitto disponibili e la domanda. Ogni proprietà in affitto ha infatti diciassette potenziali inquilini, con il numero di case disponibili inferiore del venti percento rispetto al 2019. Il motivo? Attualmente mancano 4,3 milioni di abitazioni nel mercato nazionale, semplicemente perché non sono mai state costruite.
In altre parole, con i prezzi delle proprietà sempre più elevati, le richieste d’affitto in aumento e i tassi di costruzione di nuove case stagnanti, il Regno Unito sta vivendo una delle peggiori crisi abitative nella storia del Paese.
Contrariamente a quanto spesso si pensa, la crisi abitativa britannica non è affatto un fenomeno recente. E non ha nemmeno origine negli anni Ottanta con l’introduzione, da parte di Margaret Thatcher, del programma Right to Buy, che consente ai locatari di case popolari di acquistarle a condizioni agevolate. Un’analisi dei dati raccolti dalle Nazioni Unite subito dopo la Seconda Guerra Mondiale, mostra infatti che i problemi legati alla fornitura di abitazioni hanno origini molto più lontane, risalenti a poco dopo l’introduzione del Town and Country Planning Act del 1947.
Questo importante cambiamento legislativo attuato alla fine della guerra ha tuttora un impatto sostanziale sul mercato immobiliare britannico. Il Town and Country Planning Act, infatti, ha istituito un sistema di pianificazione e autorizzazioni molto più rigoroso, che ha significativamente limitato la capacità di costruzione in lungo e in largo nel Paese. Sebbene l’intento fosse quello di garantire uno sviluppo urbano ordinato e controllato, la conseguenza è stata una significativa restrizione nella costruzione di nuove abitazioni. Questo, a sua volta, ha creato un colpo duraturo alla capacità di rispondere alla domanda abitativa in crescita.
Lo confermano anche i dati: il Regno Unito è rimasto indietro rispetto all’Europa e all’Ocse per quanto riguarda l’avvio di nuove costruzioni, la disponibilità di abitazioni adeguate e il numero di case per abitante. Tale significativa diminuzione della crescita edilizia, combinata con l’aumento della domanda abitativa, ha portato a una persistente inflazione dei prezzi delle case e a un incremento vertiginoso degli affitti.
Proprio per questo, il partito laburista, entrato al governo dopo la schiacciante vittoria alle elezioni nazionali dello scorso 4 luglio, ha fatto dell’edilizia abitativa una delle sue prime priorità. Il primo ministro, Keir Starmer, ha vinto le elezioni generali con un manifesto generalmente scarno di dettagli, ma con una promessa molto chiara a questo proposito: nel corso del suo primo mandato saranno costruite 1,5 milioni di nuove case.
Nelle prime settimane di governo il Labour ha ribadito questo impegno, con la cancelliera dello Scacchiere, Rachel Reeves, che ha recentemente annunciato obiettivi obbligatori per l’edilizia abitativa del Paese per far sì che «si torni a costruire in Gran Bretagna». «Non siamo nel business di rinnegare gli impegni del nostro manifesto» aveva affermato Reeves nel suo primo discorso nel ruolo di cancelliera, aggiungendo:«Ripristineremo fin da subito gli obiettivi obbligatori per gli alloggi. Spetterà alle comunità locali decidere dove costruire gli alloggi, ma devono essere costruiti».
Nel suo piano, il partito laburista, coinvolgendo i vari comuni del territorio, prevede di consentire alle autorità locali di destinare più terreni della «cintura verde» (cioè quei terreni rurali intorno alle città e alle aree urbane nei quali è vietata la costruzione e lo sviluppo edilizio per una legge introdotta negli anni Cinquanta dal ministro dell’edilizia conservatore Duncan Sandys) alla costruzione di abitazioni. Il piano prevede di iniziare con i siti dismessi e di creare una nuova categoria chiamata «cintura grigia» – aree della cintura verde che non sono particolarmente ricche di natura o esteticamente attraenti, ma che risultano incolte e trascurate. Inoltre, il Labour intende istituire rapidamente una task force indipendente per identificare i siti adatti per la creazione di nuove città, con l’ambizioso obiettivo di costruire abitazioni su alcuni di questi siti entro la fine di un singolo mandato parlamentare di cinque anni.
Questo è, senza ombra di dubbio, un obiettivo difficile. Rappresenterebbe un aumento del cinquanta per cento rispetto alla produzione odierna in un momento in cui il mercato immobiliare è in difficoltà, c’è una grave carenza di competenze, una catena di fornitura globale altamente volatile, una crisi finanziaria pubblica e una mezza dozzina di altri fattori macroeconomici rendono molto difficile il raggiungimento di questo obiettivo.
Inoltre, la proposta laburista per risolvere la crisi abitativa del Regno Unito solleva due principali criticità. In primo luogo, non è affatto chiaro se un programma di costruzione privata su larga scala, come la costruzione di oltre trecentomila case all’anno, possa ridurre significativamente i prezzi delle abitazioni. Al massimo, alti tassi di costruzione potrebbero rallentare l’aumento dei prezzi. Tuttavia, dall’inizio degli anni Duemila, il rapporto tra il prezzo delle case e il reddito medio è raddoppiato, passando da 4:1 a circa 9:1. Il che significa che, con la crescita salariale attuale, ci vorrebbero circa venticinque anni di crescita zero dei prezzi delle case per tornare a livelli di accessibilità abitativa.
In secondo luogo, non è certo che le proposte di riforma laburiste porterebbero effettivamente a un boom edilizio. I costruttori privati costruiscono a ritmi che garantiscono la loro redditività, e non hanno interesse ad aumentare i tassi di costruzione senza sussidi statali.
La costruzione privata di case, che con condizioni favorevoli solitamente si attesta intorno alle centosettantamila unità all’anno, potrebbe essere facilmente potenziata con un programma di edilizia sociale che ridurrebbe più direttamente e rapidamente i costi per coloro che attualmente sono in affitto privato, raggiungendo allo stesso tempo l’obiettivo di trecentomila case all’anno.
La crisi attuale, però, non riguarda solo l’offerta di case, ma anche la diminuzione dell’accessibilità economica. Negli anni Novanta e Duemila, la crescita salariale è stata appena la metà rispetto agli anni Settanta e Ottanta. Dopo la crisi finanziaria globale del 2007-09, la stagnazione salariale è proseguita: durante questo periodo, mentre i prezzi delle case e i costi abitativi aumentavano, le quote di reddito del dieci per cento più ricco e del cinquanta per cento più povero si sono allontanate sempre di più. Tale divario spiega perché la proporzione di reddito spesa per i costi abitativi dal quarto più povero delle famiglie britanniche è ora quattro volte superiore a quella del quarto più ricco.
Una parte della soluzione risiede in un approccio più razionale e progressivo alla tassazione dei redditi e della ricchezza. Inoltre, qualsiasi combinazione di tattiche che aumenti gli investimenti nell’istruzione, nelle competenze, nel capitale umano e nel benessere finanziario della parte più povera della popolazione potrebbe ridurre la pressione sull’accessibilità abitativa. Ed essere benefico per l’economia nel suo complesso.
Per affrontare la crisi abitativa del Regno Unito, quindi, il Partito laburista ha bisogno di una strategia integrata che consideri non solo la costruzione di nuove abitazioni, ma anche la pianificazione urbana, la politica fiscale e gli investimenti nel capitale umano.