Di “Autoritratto”, lo spettacolo di Davide Enia che ha debuttato al Festival dei Due Mondi di Spoleto, non sapevo gran che, da qualche rara anticipazione stampa l’unica cosa certa era che si sarebbe parlato di mafia. In effetti si parla di mafia: «Il primo morto ammazzato l’ho visto a otto anni, tornando a casa da scuola», così comincia il monologo. Tanto per mettere subito le cose in chiaro.
Devo confessare che il suo ricordare Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Don Pino Puglisi e tanti altri, (più o meno noti, ma tutti accomunati da una stessa condizione: lu murire accisu), tutto è tranne che un elenco di morti e di vittime dell’infamità, è qui che Davide Enia compie il prodigio: narra sé stesso, i suoi ricordi, la sua vita in quella Palermo straziata e straziante, così veniamo a sapere della festa dei bambini in una villetta di Capaci, anche noi vediamo la casa di Paolo Borsellino che lui vede dalla sua finestra, anche noi, da qui, adesso, riconosciamo nel suo insegnante di religione Don Pino Puglisi. E ogni episodio, ogni nome, ogni ricordo, tutto si accende di una luce nuova, di una calore, di una partecipazione davvero straordinaria, suscitando negli spettatori la sorpresa di sentirsi commossi e partecipi di storie e di nomi il cui ricordo era sbiadito dal tempo. Per chi ha l’età per poter ricordare.
«lo non ho nessun ricordo del 23 maggio 1992. Non ricordo dove fossi, con chi, quando e dove ho appreso la notizia della bomba in autostrada che ha ucciso il giudice Giovanni Falcone, sua moglie e alcuni agenti della scorta. I miei parenti, i miei amici, i miei compagni, tutte le persone che conosco hanno un chiaro ricordo di quel giorno. lo ho un vuoto che non si riempie. Le mie difese emotive hanno operato una rimozione tanto profonda quanto dolorosa». Ascoltando queste parole non ho potuto fare a meno di domandarmi dove fossi io, quel giorno, in quel momento, e mi sono ricordato che ero a Roma, a casa di un’amica – per i casi della vita – di Castelvetrano. E non posso fare a meno di ricordare di quanto colpita e turbata lei fosse, di come quasi si vergognasse di essere siciliana, di avere qualcosa in comune con quegli assassini, fosse anche solo la terra d’origine.
Davide Enia per questo spettacolo scava dentro sé stesso e smantella quelle che lui chiama «difese emotive», ricostruisce quello che il suo inconscio ha rimosso. E il suo racconto, a ogni parola, rimuove un po’ di quella polvere che il tempo ha depositato sui ricordi degli spettatori. Anche a noi sembra di aver udito un boato, anche a noi sembra di sentire l’odore della polvere da sparo.
In tanti lutti, in tanto dolore, ce n’è uno che, se possibile, è ancora più doloroso, più straziante, degli altri, uno che confonde il confine tra l’uomo e la bestia, ma non lascia spazio per nessuna virtù. L’uccisione del piccolo Giuseppe Di Matteo, un bambino – come ripete più volte Enia, un bambino, non un «morto di mafia», un bambino inumanamente strangolato e sciolto nell’acido, dopo averlo “ucciso” per 778 volte, una per ogni giorno trascorso legato in prigionia. Un abisso di crudeltà ed ignominia da far temere ai suoi stessi carnefici che quello che stavano facendo sarebbe stato un punto di non ritorno, un definitivo tagliare ogni pur flebile legame con la Sicilia dell’onore e del rispetto.
E dunque sul palcoscenico di Spoleto quest’uomo, solo, accompagnato dalla chitarra e dalla voce di Giulio Barocchieri, ci racconta, assieme a sé stesso, la Palermo in cui è cresciuto, quella Palermo in cui c’era “il giorno dell’acqua”, il solo della settimana in cui arrivava l’acqua… quella Palermo che – ancora oggi – ha degli angoli in cui sembra che i bombardieri alleati siano appena passati a seminare morte e distruzione, quella una Palermo in cui, non si può non convenire, il “traffico” non è e non è mai stata una questione fondamentale.