È un pomeriggio afoso di fine giugno a Meyzieu. L’aria è statica, sotto un sole cocente. È in questa banlieue dell’est di Lione, in Francia, che il 19 giugno due minorenni di tredici anni si sono filmati mentre davano fuoco alla scuola elementare Marcel Pagnol. Questo evento non tarderà a infiammare il dibattito politico sulla criminalità minorile, già molto presente in Francia negli ultimi mesi. Dibattito iniziato dopo le rivolte dei giovani delle banlieue l’anno scorso, – che manifestavano per la morte di Nahel, il ragazzo di origini algerine ucciso da un poliziotto –, e alimentato da fatti più recenti come lo stupro di una dodicenne ebrea nella regione di Parigi qualche settimana fa.
Da parte dell’ex premier Gabriel Attal sono arrivate affermazioni quali: «È necessaria una scossa di autorità. Siamo pronti a darla». A rincarare la dose, Jordan Bardella, presidente del partito Rassemblement National, che ha dichiarato: «Dobbiamo eliminare gli assegni familiari per i genitori dei minori recidivi».
Queste sono solo alcune delle recenti dichiarazioni politiche su questo tema, a volte seguite da azioni concrete come l’apertura di nuovi collegi per i delinquenti alle prime armi avviata da Attal. Da aprile, alcune città francesi hanno inoltre imposto un coprifuoco per i minori di tredici anni. Altre misure sono state proposte per combattere quella che sembra essere una nuova piaga sociale in Francia: l’aumento della criminalità minorile. Eppure, secondo Christian Mouhanna, sociologo al Cesdip, questi discorsi sulla delinquenza giovanile sono falsi. «Non so a cosa faccia riferimento il governo per dire che sta aumentando.»
Da dieci anni il numero dei detenuti minorenni è rimasto relativamente stabile oltralpe: i dati dell’Oip ne indicano circa tremila all’anno. Secondo Mouhanna, questo accanimento da parte di personalità pubbliche serve dei fini politici. «Quando Emmanuel Macron è stato eletto, ha insistito sulla lotta alla disoccupazione e sul rilancio dell’economia. Dato il fallimento su questo piano, inizia a tirare fuori questo discorso sull’insicurezza». Stessa osservazione per Jean-Jacques Yvorel, ricercatore in storia ed ex insegnante dell’Enpjj: «Ad ogni nuovo fatto di cronaca che coinvolge un minore, generalizziamo dicendo che i giovani sono sempre più violenti e sempre più giovani. Questo è un discorso che esiste fin dalla Monarchia di Luglio, cioè dagli anni Trenta dell’Ottocento. Ma non è vero».
Dopo la pena, tanti sogni ma pochi aiuti
Secondo i dati del ministero francese della Giustizia, al 1° maggio il numero dei minorenni detenuti era pari a ottocentodiciannove, rispetto ai seicentoquarantatre dell’anno precedente. «Oggi ci sono più pene detentive, ma per periodi più brevi. I giudici pensano che anche un breve periodo di carcere sia un buon modo per scioccare i giovani affinché smettano di violare i loro obblighi», commenta Nadia Beddiar, ricercatrice di diritto penitenziario e specialista di diritti dei minori presso l’Istituto cattolico di Lille.«Ma il carcere diventa una scuola del crimine», aggiunge Jean-Jacques Yvorel, ex insegnante dell’Enpjj ed ex educatore della Pjj.
Secondo l’Insee, in Francia, quasi la metà di coloro che escono dal carcere recidivano entro due anni, con un tasso elevato tra i giovani. È successo anche a Corentin Blanchard, Farès e J.N. Corentin Blanchard, ventisei anni, è passato dal carcere minorile di Orvault, nell’ovest della Francia, all’età di quattordici anni per un tentato omicidio di un poliziotto. Per anni ha conosciuto le detenzioni anche nei centres éducatifs fermés (Cef). «Imparavamo l’uno dall’altro. Ci siamo introdotti a vicenda al crimine e condividevamo idee di delitti. A volte assumevo il ruolo d’insegnante, altre volte di studente», spiega il giovane. Farès, che oggi ha ventitré anni, ha iniziato a delinquere all’età di quattordici: incendi di auto, furto con scasso in una panetteria e traffico di droga. Viene quindi collocato in un Cef. J.N., ventitré anni, quanto a lui, è stato posto sotto controllo giudiziario con obbligo di firma presso la Pjj dai sedici ai diciotto anni per traffico di droga.
Oggi Farès sogna di creare un’azienda di traslochi. J.N. sta cercando una formazione informatica per diventare sviluppatore web. Ma con un braccialetto elettronico e precedenti penali è complicato. L’organizzazione Jedai del gruppo La Varappe aiuta i due giovani a costruire e realizzare i loro progetti. Corentin Blanchard si dedica a intervenire nei centres éducatifs fermés per ispirare i giovani detenuti raccontando la sua storia. Ha anche creato una società per il reinserimento dopo il carcere e fondato un’associazione.
L’iter giudiziario dei minori francesi
Nadia Beddiar, ricercatrice in diritto penitenziario e specialista di diritti dei minori presso l’Istituto Cattolico di Lille, ci ha spiegato l’iter legale di un minore in Francia: custodia cautelare, intervento del pubblico ministero e decisioni del giudice minorile. Se i fatti sono lievi, sono possibili delle alternative alla pena giudiziaria (tirocini, consulenze, rientro a scuola). Per i casi gravi, il giudice può scegliere tra quattro tipologie di misure educative provvisorie affidate alla Protezione giudiziaria della gioventù (Pjj), della durata di sei mesi prima della sanzione vera e propria.
Il silenzio regna avvicinandosi al carcere minorile del Rhône, la regione di Lione. Secondo Prison Insider, questa struttura è spesso sovraffollata e viola frequentemente il principio di reclusione individuale previsto per i minori.
È dalle porte di questo istituto penitenziario che sono passati molti giovani dei quartieri popolari di Lione, incontrati durante gli interventi del Man. L’associazione offre a questi ragazzi «l’opportunità di interagire con degli adulti all’ascolto e comprensivi, con l’obiettivo di accorciare le distanze tra loro e il resto della società», spiega Xavier Dormont, coordinatore. Xavier tira fuori dal suo camion dei tavoli pieghevoli e vi posa sopra dei bicchieri. Nei cortili delle case popolari di Vaulx-en-Velin, all’est di Lione, e Saint-Fons, banlieue a sud della città, davanti a un tè marocchino che prepara lui stesso, parla amichevolmente con i giovani residenti.
Alcuni di loro hanno vissuto la detenzione minorile, ma ne conservano un ricordo relativamente positivo. Ricordano soprattutto il sollievo di avere una cella individuale, di disporre segretamente di uno smartphone e di cannabis e di trovare volti familiari tra i detenuti. Per questi giovani il periodo della pena è vissuto come una bolla protettiva. È il «dopo» che fa paura. «Il nostro futuro è stato rimandato, ci vogliono anni per riprendere la nostra vita in mano, per chi ci riesce…», spiega Corentin Blanchard, che è ricaduto nella criminalità dopo i diciotto anni.
«Sono sotto controllo giudiziario, con obbligo di firma una volta al mese. Non mi è permesso lasciare Lione e alle 19 devo essere a casa», spiega Karim, diciotto anni. Non è rimasto a lungo nel carcere minorile di Meyzieu, solo quattro giorni. Ma oggi la sua vita è complicata. «Nessuno mi dà un lavoro dato che ho precedenti penali… A parte controllare che restiamo nella legalità, la Pjj non ci guida né ci dà consigli su come ricominciare da capo». Alla domanda sulle sue ambizioni e sui suoi sogni se non avesse la fedina sporca, Karim rimane pragmatico: «Vorrei diventare preparatore delle spedizioni Amazon, se la giudice è d’accordo».
«La Pjj segue i minori fino ai diciotto anni, a volte, ma raramente, fino ai ventuno, spiega Nadia Beddiar, ricercatrice in diritto penitenziario e minorile. «Possono provare a ricevere un contrat d’engagement jeunes, ma è difficile. Non possono ricevere la Rsa, riservata a chi ha più di venticinque anni. In Francia, i giovani tra i diciotto e i venticinque anni hanno uno statuto molto precario. Per evitare che ricadano in una delinquenza di sopravvivenza, si dovrebbe pensare a un aiuto statale a partire dai diciotto anni. Gli studenti possono ricevere le borse di studio, perché non garantire qualcosa del genere anche ai giovani che non vanno all’università?».
Angèle Guitton lavora con l’associazione Possible a Lione. Interviene in un’unité éducative d’hébergement collectif (Uehc), dove vengono collocati ragazzi dai quattordici ai diciassette anni prima o dopo la sanzione. «Facciamo corsi sulla cittadinanza. Li porto in tribunale, invito dei giudici ed ex detenuti. Parliamo di consenso… Questi ragazzi provano un forte sentimento d’ingiustizia, per questo proviamo a demistificare il funzionamento del sistema giudiziario».
Souareba, diciannove anni, è stata incarcerato a quindici anni, poi collocato in un Cef e a diciotto anni in un carcere per adulti. Oggi impara la tinteggiatura con l’associazione Appel d’Aire. «Vado avanti e faccio del mio meglio, anche se è difficile. Vorrei ottenere una qualifica», spiega il ragazzo. Appel d’Aire è un’associazione convenzionata con la Pjj, ed è situata in un quartiere popolare del terzo arrondissement di Marsiglia.
«Proviamo a costruire delle relazioni con dei giovani che hanno abbandonato la scuola o con ex detenuti che si trovano in una situazione antirelazionale a più livelli – con la famiglia, i coetanei, la scuola, le autorità, gli adulti…» descrive il direttore Julien Acquaviva. «I nostri laboratori di formazione ai lavori manuali con il legno e i metalli ci permettono di trasmettere loro i codici della convivenza sociale, come arrivare puntuali, giustificare le assenze, andare d’accordo con i colleghi, organizzare il proprio lavoro, prendere delle iniziative…».
I delinquenti minorenni solitamente terminano la loro pena con un livello di istruzione non superiore all’inizio della scuola media. Spesso i legami con le famiglie di origine si indeboliscono o addirittura si distruggono durante la pena, e l’accompagnamento della Pjj termina bruscamente all’età di diciotto anni. Sono quindi le associazioni e gli educatori che cercano di colmare il vuoto.
Le proposte di riforme penali ingannevoli
Un disegno di legge reso pubblico ad aprile prevede tre anni di carcere e quarantacinquemila euro di multa per i genitori dei minorenni recidivi. Éric Ciotti, presidente del partito di destra Les Républicains, ha invece proposto di eliminare l’attenuante della minore età. «Dal 2007 è possibile giudicare come adulto un minore di sedici anni, ma i giudici generalmente evitano di applicare questa misura, anche in casi talvolta estremi», analizza Nadia Beddiar, giurista. «Ne parlano come se fosse qualcosa di nuovo, quando è un provvedimento vecchio».
Un altro progetto dell’esecutivo francese consiste nel reintrodurre la possibilità di essere processati in comparizione immediata a partire dai sedici anni, procedura che era stata abolita con la riforma della giustizia penale minorile del 2021.
«Abbiamo già nel nostro corpus giuridico la possibilità di sanzionare i genitori inadempienti togliendo gli assegni familiari», spiega Jean-Pierre Rosenczveig, magistrato onorario ed ex giudice minorile. «Quindi vediamo molto chiaramente che non è la legge che dev’essere cambiata, ma dev’essere attuata. E per questo abbiamo bisogno di assistenti sociali che sostengano i giudici minorili, poiché il giudice non può lavorare da solo», continua Rosenczveig. «Si tratta spesso di famiglie in difficoltà economiche. È davvero utile, per lottare contro la delinquenza, renderle ancora più precarie?», ribatte Nadia Beddiar. «La comparizione immediata degli adulti non può applicarsi ai minori. Ci troviamo di fronte a risposte presentate come un tentativo di rassicurare l’opinione pubblica, ma sappiamo che tecnicamente e politicamente non sono possibili», conclude Jean-Pierre Rosenczveig.
La detenzione, un’occasione mancata di ricostruzione
Sin dal momento della pena o della detenzione carceraria, ridare forma alla propria vita è un percorso ad ostacoli per questi giovani. Alcuni ex detenuti ed educatori denunciano l’onnipresente violenza verbale e fisica tra i giovani degli Epm e dei Cef, così come le intimidazioni talvolta esercitate da alcuni supervisori di questi centri. Inoltre, è difficile conoscere l’impatto di queste strutture sui ragazzi, dato che le valutazioni e le relazioni sul loro funzionamento interno e sulla loro efficacia sono pressoché inesistenti.
«La Pjj monitora i nostri sforzi per rimanere nella legalità, ma non ci aiuta davvero. Non ci dicono «ecco come trovare una formazione» o «puoi trovare un lavoro in questo modo». Siamo abbandonati a noi stessi», spiega J.N., ventitré anni, posto sotto controllo giudiziario dai sedici ai diciotto anni per traffico di droga, recidivo e ora sotto braccialetto elettronico. «Trafficavo per guadagnare, ma nessuno ci spiega come ottenere soldi legalmente. Quando hai sedici anni, è complicato capire cosa fare se non hai niente da mangiare a casa».
Secondo un ex funzionario della Pjj che preferisce rimanere anonimo: «Gli educatori sono eccellenti e fanno del loro meglio, ma il funzionamento della Pjj è catastrofica. La sua gerarchia crea divisioni. La direzione maltratta e considera i propri dipendenti come sindacalisti pigri che non vogliono lavorare, quando in realtà è un lavoro molto duro».
«Spesso le misure educative non vengono attuate», aggiunge Jean-Pierre Rosenczveig, ex giudice minorile. «Per mancanza di personale, di locali adeguati… Quando vogliamo allontanare un giovane dalla famiglia, ci viene detto che non c’è posto nei vari centri. È un problema di risorse umane e finanziarie. Poche persone vogliono lavorare in questo campo. E il risultato è questo leggero aumento del numero di minorenni incarcerati rispetto allo scorso anno: i giudici sono obbligati di optare per il carcere, perché mettere in atto gli altri provvedimenti è troppo complicato».
Corentin Blanchard, ventisei anni, – che come ricordiamo ha vissuto in carcere e nei centri educativi chiusi (Cef) dai quattordici ai diciannove anni –, ricorda oggi la solitudine e l’angoscia di quel periodo. «La prima notte nel carcere minorile, il sorvegliante mi ha preso le impronte digitali e mi ha perquisito, nudo, in una stanza molto piccola. Eravamo soli e ho sentito che perdevo la mia dignità. Avevo molta paura di quello che avrebbe potuto farmi, che mi violentasse. Ero affamato, ma mi rifiutò un pasto caldo perché era ormai passata l’ora. A mezzanotte crollai in ginocchio piangendo».
I minorenni trascorrono fino a ventidue ore al giorno nella loro cella senza fare nulla, secondo Yvan Jobard, che ha insegnato e coordinato l’insegnamento presso il centro di detenzione di Pontet, nel sud della Francia, dal 2017 al 2019.
Secondo un rapporto di Alice Simon, direttrice del centro di ricerca della Pjj, i detenuti minorenni spesso soffrono di privazioni. Il confinamento individuale porterebbe all’isolamento sociale e psicologico. Il tempo trascorso nelle celle varia, con alcuni minori che escono solo raramente per svolgere delle attività. Nel 2021, sono state inviate alla direzione della Pjj quattrocentocinquantasei segnalazioni di incidenti, inclusi centoquarantasette tentativi di suicidio e quarantadue rischi di suicidio.
I minorenni sono tenuti all’obbligo scolastico anche mentre scontano una pena. «Ma le strutture non sono adeguate. Potevamo utilizzare soltanto due sale con dei computer ma senza accesso a internet», spiega Yvan Jobard. «Gli studenti erano divisi in tre gruppi in base alle affinità degli uni con gli altri, ma senza tenere conto del loro livello scolastico. I mezzi finanziari erano molto scarsi ed era complicato introdurre del materiale per fare lezione, toccava a noi portare tutto, ma anche un libro necessitava di autorizzazioni», continua il docente.
Le ore di insegnamento previste vengono raramente rispettate. Secondo Prison Insider, l’accordo tra il ministero della Giustizia e il ministero dell’Istruzione francese fissa degli obiettivi da raggiungere: dodici ore settimanali nei quartiers des mineurs (Qm) e venti ore nelle carceri per minori (Epm). Ma la media delle ore d’insegnamento effettuate realmente è di dieci ore settimanali. «Se ne facevamo cinque o sei, era già tanto», conferma Yvan Jobard.