American nightmareL’inferno esiste solo per chi vuole crederci

Lawrence Wright ricostruisce la vicenda degli anni Ottanta della famiglia del vice sceriffo di Olympia, nello Stato di Washington, tra accuse di abusi e di satanismo in una spirale verso l’assurdo guidata dall’irrazionalità

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Alla letteratura, come insegna Coleridge, bisogna credere per forza, accettandone le incongruenze rispetto alla vita reale: che senso avrebbe, sennò, leggere Poe o Kafka? Quando invece leggiamo una storia che sappiamo essere accaduta a persone vere, la nostra mente fatica a raccapezzarsi davanti a vicende prive di connessione con i dettagli dell’esperienza umana. Se apriamo “Inferno americano” di Lawrence Wright – appena pubblicato da NR con la brillante traduzione di Paola Peduzzi – ci troviamo improvvisamente catapultati nella seconda situazione: la vita di un vicesceriffo di provincia degli anni Ottanta, in una cittadina dello Stato di Washington, assume improvvisamente i contorni di una vicenda che sembra scritta da Kafka per le sue assurdità e dagli sceneggiatori di Dylan Dog per l’angoscia che, pagina dopo pagina, ci assale sempre di più. Come recita il sottotitolo, si tratta della “Storia di una famiglia”, più precisamente della famiglia Ingram.

Paul Ingram, vice sceriffo di Olympia, capitale dello Stato di Washington, era il ritratto dell’uomo rispettabile: sposato con Sandy, presidente del locale Partito Repubblicano, padre di cinque figli (una sesta, affetta da problemi cognitivi, era morta da poco in un istituto) e membro attivo della Church of Living Water, una congregazione protestante fondamentalista. La sua vita orgogliosamente monotona di americano medio subisce una svolta irreversibile il mattino del 28 novembre 1988 quando, recatosi al lavoro, viene convocato dai suoi superiori: gli chiedono se sia al corrente che le figlie Ericka e Julie, ventidue e diciotto anni, lo hanno accusato di molestie sessuali.

È davanti a questa scioccante rivelazione che la realtà inizia a sprofondare nel baratro dell’assurdo perché Ingram confessa sulla base di un motivo a dir poco discutibile: ammette che sia accaduto perché le figlie non mentirebbero su una vicenda così delicata. Ma sono le parole che usa – riportate integralmente da Wright – a farci rabbrividire: la sua confessione è zeppa di condizionali, sembra il copione di un attore mediocre o un bambino insicuro che voglia compiacere una madre che lo ha appena sgridato. Ma, paradossalmente o meno che possa sembrarci, le sue parole vengono prese per buone innescando una spirale profondissima verso il non ritorno. L’accusa costruirà il suo caso basandosi su due fattori, saldati in uno: i cosiddetti ricordi recuperati, da un lato, e la paranoia del satanismo degli anni Ottanta, dall’altro.

In quel periodo, negli Stati Uniti divampa la fobia del satanismo: bastano pochi casi per diffondere la psicosi in tutto il Paese, cavalcata da talk show sensazionalistici che forniscono dettagli spesso inventati di violenze sessuali ai danni di giovani donne, ingravidate e costrette a partorire neonati poi uccisi, smembrati e mangiati dagli adepti. I ricordi recuperati sono invece un fenomeno più complicato: riguardano, come ci spiega Wright in alcuni capitoli nei quali fa necessaria chiarezza su questo retroscena, un fenomeno psicologico i cui fondamenti risalgono fino a Freud. La psicanalisi cura il paziente spingendolo a risalire sempre più indietro nel suo passato, fino all’origine dei traumi che ne provocano le nevrosi. Ma quando i traumi sono particolarmente drammatici – come subire violenze sessuali, a maggior ragione da famigliari – la mente ne cancella il ricordo nel tentativo di fare i conti con quanto accaduto. Attraverso particolari tecniche psicologiche, tali ricordi possono poi essere appunto recuperati. 

Il caso Ingram fonde questi due aspetti in maniera del tutto maldestra. Continuando la lettura, siamo sempre più stupiti che gli inquirenti abbiano creduto a Ingram, un uomo così ingenuo e stupido da accettare in un interrogatorio la presenza del proprio pastore, che lo spronava a vomitare in un secchio per espellere il male presente in lui. Un uomo che non delude mai le autorità che lo imbeccano con le domande giuste e, dopo la sua confessione, inizia ad accusare altre persone: sia estranei, come alcuni amici ex-colleghi con cui giocava a poker nel seminterrato di casa, sia soprattutto famigliari. La loro vita viene rovinata sulla base dei presunti ricordi di un uomo, presi per buoni solamente per il fatto di essere stati pronunciati dal principale presunto accusato di questa vicenda raccapricciante.

Quello che Ingram racconta – o, meglio, inventa – mette i brividi: le violenze sessuali assumono dettagli sempre più inverosimili e grotteschi, coinvolgendo sempre più persone. Le quali, come la moglie Sandy, confessano a loro volta, basandosi sullo stesso principio: se il marito ha detto così non può che essere vero, perché mai dovrebbe mentire? Qui entra in scena il satanismo perché il contorno delle violenze sessuali si allarga: dalla perversione ingiustificabile di un padre che abusa di figli e figlie si passa ai rituali delle sette. Le figlie aggiungono dettagli macabri: stuprate dai famigliari o dagli altri adepti, costrette a portare a termine gravidanze in cui i feti e i neonati vengono sacrificati a Satana.

Nessuno degli investigatori mette mai minimamente in dubbio che si tratti di fantasie: la rimozione del ricordo dello stupro dei propri figli da parte di un padre può forse trovare una spiegazione psicologica, ma i dettagli raccontati dalle figlie – che, visitate, non presentarono mai nessun segno di gravidanza o violenze – assumono contorni sempre più irreali. Peccato che nessuno degli investigatori abbia consultato psicologi e psichiatri seri o, molto più banalmente, sia mai andato alla ricerca di uno straccio di prova materiale.

La vicenda avrà una conclusione amara, che lascio ai lettori scoprire. Chiuso il libro, a ognuno e ognuna di loro rimarrà addosso un senso di angoscia e stupore. Da un lato, infatti, la razionalità ci impone di considerare che il caso risale a quasi quaranta anni fa, quando le tecniche investigative erano diverse, e accadde a Olympia, una città di provincia; inoltre, colleghi furono chiamati a indagare altri colleghi, con tutte le conseguenze derivanti di stress e pressione, riguardo a una vicenda raccapricciante. Resta il fatto che la razionalità cedette subito il passo all’irrazionale: tutti vollero credere solamente a ciò che vollero, rifiutando i più basici principi della logica e trascinando molte persone in un baratro da cui fu impossibile tornare indietro.

A Lawrence Wright va il merito di averci raccontato una storia così assurda in modo tanto preciso: la sua penna e il suo stile, che gli hanno valso il Premio Pulitzer per la saggistica nel 2007, sono l’unico appiglio per orientarci in questa che sembra una vicenda inventata. Wright infatti è maestro a dosare i fatti e la loro narrazione. La descrizione di personaggi e luoghi della storia con dovizia di particolari, anche minimi (Ingram aveva baffi tipici da anni Ottanta; il 28 novembre 1988 era un lunedì), ce li rende accettabili nella loro concretezza reale. Mentre altri capitoli di sintesi ci conducono attraverso i mesi delle investigazioni, le menti degli investigatori e il contesto dei ricordi recuperati e del satanismo. Se Wright, con la sua autorevolezza e il suo stile, è la nostra garanzia di veridicità, Paola Peduzzi restituisce appieno al lettore italiano queste sfumature: il tono martellante fatto di frasi brevi e aggettivi precisi ci fa percepire tutta l’assurdità di questa storiaccia di più di trenta anni fa. Quando, a Olympia, sembrò che una famiglia rispettabile vivesse di incubi e gli esseri umani, tutti, abbandonarono per qualche mese l’uso della ragione.  

Lawrence Wright, “Inferno americano. Storia di una famiglia”, traduzione di Paola Peduzzi, NR edizioni, 2024, 210 pagine, 20€

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