Il buio oltre lo smartphoneLa sana noia del Novecento, i tronisti di Balzac e gli effetti della dopamina sballata

Noi non leggevamo perché eravamo più intelligenti, eravamo più intelligenti perché leggevamo. Ora è diventato impossibile convincere a concentrarsi per due minuti gente abituata a una notifica al secondo

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Ogni tanto qualche mio coetaneo si dimentica che chiunque abbia la nostra età sa come funzionava nel Novecento, mette su il tono eccezionalista, e s’illude d’autocertificarsi forme elevate d’intelletto con qualche frase come: i miei non mi facevano vedere la televisione, leggevo tutto il tempo.

Chi c’era sa come andava in realtà. A nessun bambino degli anni Settanta è mai stato necessario limitare la televisione, perché la televisione era pochissima. C’erano un paio di cartoni animati, erano già gli anni Ottanta quando arrivò quella rivoluzione che erano “I simpamici”: ogni pomeriggio un telefilm per ragazzi, ohibò, esistevamo dunque anche noi e potevamo mezz’ora al giorno guardare “Arnold” o “L’albero delle mele”.

Tv poca, videogiochi quasi niente: io mi fermavo, tornando da scuola, in un bar che non esiste più dove c’era il videogioco di Braccio di ferro; gli lasciavo tutte le monete che avevo, ma a un certo punto finivo le vite e dovevo tornare a casa.

A casa dove, non essendoci tutto ciò che ci distrae oggi, leggevamo. Non leggevamo perché eravamo più intelligenti dei bambini di ora (semmai il processo di causa ed effetto era inverso): leggevamo perché non c’era altro da fare. Ogni relitto del Novecento ha una o più storie di noiosissime estati in cui, per la disperazione, ha letto qualche classico della letteratura per il quale oggi non troverebbe mai il tempo o la concentrazione.

Poi c’erano le mode, alle quali i ragazzini sono molto soggetti; io, che non avevo uno straccio di personalità, le seguivo senza farmi domande. Ricordo il periodo in cui era di moda Hermann Hesse, che per la verità mi pareva imbarazzante pure allora, ma la Chicca lo amava e io tutto quel che faceva la Chicca emulavo (lei a sua volta emulava le sorelle universitarie, e meno male, perché senza quelle due noialtre ci saremmo sì risparmiate Hesse e Pirsig, ma non avremmo mai avuto Bowie o Guccini o Joni Mitchell: dio o chi per lui sia ringraziato per averci dato un’infanzia in anni in cui gli adulti avevano consumi culturali adulti).

È quindi con (limitato) sconcerto che leggo l’altro giorno questo tweet (o come si chiamano ora): «Uno dei ragazzi che aiuto nei compiti deve leggere, durante le vacanze, “Narciso e Boccadoro” e “Il buio oltre la siepe”. Ha 15 anni. Secondo voi è giusto assegnare a quell’età libri così importanti? Ovviamente faccio fatica a convincerlo e tutto ciò mi mette tristezza». Un’adulta che definisce quei due titoli da scuole medie «libri importanti», ohibò. Eppure lo sconcerto è, appunto, limitato. Perché come voi vivo nel mondo e so che l’alternativa a dare da leggere a un quindicenne Hesse o Lee non è dargli Canetti o Musil: è Candy Crush.

I trentenni, sul telefono, danno la caccia ai Pokémon. I quarantenni ascoltano gli audiolibri – cioè: sono adulti che s’intrattengono col corrispondente delle fiabe sonore su 45 giri di quando eravamo bambini – e poi ti dicono che sì, quel libro l’hanno letto. Noi non leggevamo perché eravamo più intelligenti: eravamo più intelligenti perché leggevamo, qualunque neuroscienziato vi spiegherà che il cervello assorbe in modo diverso le informazioni scritte, c’è persino una differenza tra la meccanica dello sfogliare le pagine di carta e quella di prendere a ditate il telefono, quanto a informazioni immagazzinate. Ciclicamente escono studi che dicono che il quoziente intellettivo medio è calato, e io penso: per forza, invece di leggere ascoltate i podcast.

Nelle risposte alla tizia che si preoccupa per l’inaccessibilità di Harper Lee per un quindicenne, c’è gente che dice che le diedero da leggere “Il diario di Anna Frank” alle medie e insomma era troppo presto: ma non l’abbiamo letto tutti alle medie? Oddio, veramente credevo che anche “Lessico famigliare” si leggesse alla medie, e qualche mese fa una quarantenne m’ha detto che lo stava leggendo per la prima volta. Forse ai più giovani di me alle medie davano dei libri da colorare.

L’altro giorno osservavo un’insegnante spiegare senza mettersi a ridere che non si può proibire il cellulare a scuola a meno che non si fornisca un motivo: «Questa generazione non vuole sentirsi dire “perché no”». Ah beh, quelle precedenti invece ne andavano pazze proprio, caratteristica precipua della disciplina è fare felici coloro sui quali viene esercitata. (Questo è il punto in cui arriva qualcuno a dire: ah, allora rivuoi gli insegnanti che prendevano gli alunni a cinghiate – una realtà che per anagrafe nessuno di noi ha mai vissuto, tanto varrebbe dire «rivuoi gli schiavi che costruivano le piramidi» – perché a furia di fiabe sonore è finita così: che non sapete leggere).

Certo, sono cazzi dire che non puoi usare il telefono a una generazione nata col telefono in mano e per la quale tutto, dall’intrattenimento alla vita sentimentale al cibarsi al discutere coi genitori, passa per il telefono. Sono cazzi convincere a concentrarsi i due minuti necessari a leggere una pagina gente abituata a una notifica al secondo, alla dopamina sballata.

La tizia che si preoccupa perché non riesce a convincere un ragazzino a leggere un romanzo per ragazzini non è sola. Il tema della lettura e di come per i più giovani sia uno sforzo sovrumano era molto presente la settimana scorsa tra i tweet degli americani. Come sempre è presto finito tutto in vacca, poi vi racconto come, ma prima ricopio stralci dai tweet d’una docente di Letteratura Fotografica in un’università di Boston.

«Gli studenti universitari non sanno più leggere. Insegno da ventiquattro anni; il livello ha iniziato a scendere alla fine degli anni zero, ed è precipitato durante il Covid». Spiega che richiede l’uso di testi cartacei, che glieli fotocopia lei il che li fa sentire molto sollevati, che pretende abbiano una penna o una matita per annotarli (è difficile non trovare buffo che tutto ciò che era ovvio un attimo fa ora sia straordinario).

«Arrabbiarsi con gli studenti perché non gli piace leggere non serve. Sono stati addestrati dai loro telefoni a cercare il piacere rapido, quello della lettura è un piacere lento. io sono una scrittrice cresciuta nell’epoca analogica, e neppure io riesco a concentrarmi su un libro quanto una volta». Non è un dettaglio secondario, questo della rapidità. Ogni tanto – quando le pubblicità su Instagram mi promettono di perdere venti chili in due mesi con dieci minuti al giorno di yoga somatico, che non ho ancora capito cosa sia ma guardo ipnotizzata lo spot – penso a quando “Sette chili in sette giorni” era un film comico, non una seria proposta commerciale. Soprattutto, penso a una delle frasi più preveggenti di come sarebbe stata la vita in questo secolo, scritta da Carrie Fisher nel 1987: «La gratificazione istantanea ci mette troppo».

Torniamo alla docente americana, e a come non leggendo si diventi più scemi, e da lì non possa che finire così: con professori che agli alunni scemi mica possono dare da fare le cose che sarebbero stati disinvoltamente in grado di fare i ventenni meno scemi del secolo precedente. «Scelgo i testi con l’obiettivo di sfidarli nel punto in cui sono. Assegno ancora Barthes e Sontag, e a loro piacciono: sono corti». Ma non dà più “La casa dei sette abbaini” né “Sia lode ora a uomini di fama”, perché un romanzo gotico dell’Ottocento è irricevibile dai giovani virgulti quanto un libro fotografico sulla grande depressione (cinquecento pagine di poveri: figuriamoci).

Tutta la discussione era nata perché un tizio di Princeton aveva detto che, se uno studente di letteratura non è in grado di leggere cento pagine di romanzo al giorno, forse l’università non fa per lui. Ovviamente apriti cielo, giacché dire che non tutto è per tutti è il grande tabù di questo nostro secolo in cui, più che la democrazia dove dovrebbe esserci, cioè al governo, ci interessa una simulazione di democrazia nella cultura, un uno-vale-uno in cui qualunque cretino possa laurearsi salvo poi lamentarsi che la sua laurea non valga nulla sul mercato del lavoro.

A mandare tutto in vacca è stata una tizia che ha iniziato a dire che il tizio di Princeton, con la sua idea della superiorità della letteratura e della parola scritta, era un suprematista bianco. E quelli che hanno avuto genitori che non sanno leggere? E quelli che non sono madrelingua inglesi? (È americana, quindi per lei esiste solo letteratura in inglese).

Ha originato qualche giorno dell’unico format culturale che questo secolo si possa permettere, quello sghignazzante. Tutti a ridere di quella che neanche si rende conto di quanto sia razzista a dire che la letteratura è roba per suprematisti bianchi. Tutti a spernacchiare la tizia inconsapevole che «leggere cento pagine al giorno», per chi vuole specializzarsi in letteratura, equivalga a saper fare le addizioni se da grande vuoi fare il matematico.

Io ripensavo a dei ventenni italiani che, giorni prima, arringavano i loro follower sul dovere d’un professore di rendere più facile un esame al quale venivano tutti bocciati, un esame difficilissimo, io ho studiato addirittura un mese intero. Era preoccupante perché, finché è letteratura, al massimo non distingui un narratore inaffidabile e da grande scrivi sui social delle puttanate su Nabokov; ma quelli erano studenti d’ingegneria, e un mese di studio gli pare una vessazione e poi ci meravigliamo se i ponti crollano. (Non crolleranno perché nessuno di questi troverà lavoro: tra trent’anni, mentre ci cambieranno il pannolone, ci arringheranno sull’ingiusta società che non ha dato loro il lavoro per cui avevano studiato, a volte addirittura per un mese).

Ma, soprattutto, mi preoccupavo del contagio. Come la docente di Letteratura Fotografica, neanch’io so più leggere con la concentrazione d’un tempo. L’altro giorno spiegavo a un amico orgogliosamente ignorante che i tronisti li ha inventati Balzac, mica la De Filippi. Lui voleva un bigino per ripetere questa battuta in società, e io gli ho detto di leggere “Ilusioni perdute”. Mi ha guardato come se gli avessi detto di portarsi al mare “La tentazione di esistere”.

Lo so, cinquant’anni fa Elide Catenacci diceva al marito «Tosto, eh» dei “Tre moschettieri” che lui le aveva dato da leggere: non stiamo inventando nulla, il secolo in cui i romanzi che uscivano a puntate sui giornali per il diletto degli ignoranti vengono guardati con diffidenza è la copia di mille riassunti.

Però quel personaggio, quella scena, quel dialogo, quell’ignoranza in “C’eravamo tanto amati” erano satira, erano un’iperbole, erano – come “I tre moschettieri”, come “Illusioni perdute” – fatti per intrattenere la massa non acculturata. Quella che leggeva, perché nel tempo libero che altro volevi fare. Certo, non è che a fine giornata si buttassero su Arbasino, ma leggevano la Fallaci nei numeri con cui adesso giocano a “Angry Birds”. Leggevano le biografie, i romanzoni, le letture che all’epoca erano per ignoranti e ora che siamo tutti ignoranti sono le ultime rimaste con un mercato nel secolo del telefono coi giochini e gli autoscatti: adesso i romanzi d’appendice sono prelibatezze per intellettuali, inarrivabili traguardi per dottorandi.

Elide Catenacci era iperbole, e ora è realismo. Adesso, se quel dialogo lì lo vedessimo al cinema, potrebbe farci al massimo da specchio. Ma al cinema non ci andiamo, perché due ore senza guardare il cellulare sono inconcepibili, e per specchiarci abbiamo la fotocamera in tasca.

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