Tra le molte fortune dell’essere stati giovani in quell’altro secolo, c’è la televisione.
Che a un giovane d’oggi probabilmente sembra un incubo – meno canali di quanti fossero i gusti di gelato, e non la potevi vedere sul telefono, e se ti perdevi un programma mentre andava in onda te l’eri perso e amen – ma che aveva dentro, in una serata normale, roba che in questo secolo devi aspettare Sanremo.
Una sera di quand’avevo dieci anni, per dire, c’era Blitz, il programma di Gianni Minà (che i giovani d’oggi non hanno idea di chi sia). In studio c’era Vittorio Gassman (che per i giovani d’oggi è uno che legge menu di ristoranti su YouTube), e in collegamento c’era Gigi Proietti (che per i giovani d’oggi è il maresciallo Rocca, uno d’una serie che guardavano le loro nonne quand’erano piccoli), al quale teneva il microfono Adriano Celentano (uno rispetto al quale fummo giovani d’oggi anche noi, convinti fosse quello che scriveva sulla lavagna «La caccia è contro l’amore» dimenticando di accentare la “e”).
Nei due minuti che contano, e che probabilmente avete visto perché l’internet ha fatto anche cose buone, tra le quali darci un catalogo permanente di filmati da riesumare a cadavere caldo per fingerci esperti dell’opera del morto, Proietti imita Gassman. Lo fa alla perfezione, naturalmente, perché aveva una tecnica formidabile. Uguale la voce, uguale il tic degli occhi. Fa Gassman che legge Dante, perché racconta che lui è cresciuto coi dischi in cui Gassman leggeva la Divina Commedia, ed è in quel momento che pensi che sì, anche tu sei stata giovane d’oggi, perché sei cresciuta con Nikka Costa e Cristina D’Avena, mica con le letture della Divina Commedia, anche tu sei stata l’asina di qualche generazione precedente.
Se devi immedesimarti, come pare sia indispensabile fare oggi per fruire di qualsivoglia opera, puoi immedesimarti solo in Jacopo Gassman, duenne in braccio al papà che sussulta dal ridere, bambino biondo incapace di comprendere il compiacimento del babbo nel vedersi in uno specchio deformante.
Quindi: ci sono state prime serate in cui i colossi si prendevano per il culo su basi dantesche mentre altri colossi reggevano loro il microfono, poi dev’essere successo qualcosa, perché è andato tutto a puttane e abbiamo iniziato a mettere politici e giornalisti al posto di Gassman e Proietti.
Quattro anni prima di quel passaggio televisivo, Gassman e Proietti avevano fatto un film di Robert Altman (che i giovani d’oggi hanno sentito nominare persino meno di Minà, ma non preoccupatevi: perché mai dovreste conoscere la storia del cinema, con quei neuroni occupati dal sapere tutti i nomi dei personaggi minori dell’ultima stronzata di Netflix).
Se siete gente del Novecento, vi darà un qualche senso dell’unità di misura sapere che il film di Altman non fu il picco di carriera né per Gassman né per Proietti. Ma se siete del Novecento non avete bisogno che vi spieghi chi fossero né Proietti né Gassman, e se siete giovani d’oggi non v’interessa capirlo, quindi non si sa a chi io stia parlando. Da sola, come i matti.
Proietti è morto nel giorno del suo ottantesimo compleanno (è la cosa che per decreto va scritta in ogni coccodrillo, assieme a: è morto mentre i teatri sono chiusi), e oggi compie 89 anni Monica Vitti, che i giovani d’oggi hanno ancora meno idea di chi sia rispetto a Proietti.
Feltrinelli ha appena pubblicato E siccome lei, uno strano libro in cui Eleonora Marangoni (che ha 37 anni, ed è quindi appena uscita dalla categoria “giovani d’oggi” per entrare in quella “adulti con riserva”) racconta la Vitti raccontando i suoi personaggi.
Ho passato un’estate in compagnia dei personaggi della Vitti. Era quella di quattr’anni fa, lei stava per compierne 85, la Rai voleva fare un documentario che la raccontasse, cambiarono idea all’ultimo minuto e nel frattempo sono morti quasi tutti quei pochi rimasti che avrebbero potuto raccontarla, e il documentario immagino che non lo farò mai più e la Rai neppure m’ha mai pagato quei mesi di lavoro, ma è stata comunque l’estate migliore di questo millennio, trascorsa in compagnia di Assunta Patanè e Adelaide Ciafrocchi.
E assieme a cinquecento Moniche Vitti, ogni tanto credo di ricordarmi male e vado a guardare nella cartellina dei materiali che ho ancora sul desktop, e no, è proprio così: la Vitti non è mai uguale, da una foto all’altra. Sembra sempre una del secolo successivo, ma lo sembra in centinaia di modi diversi. A un certo punto, in un’intervista alla Fallaci, dice che era brutta, e che glielo chiede sempre, «a Michele» (lei Michelangelo Antonioni lo chiamava Michele), come ha fatto a prendersela così brutta. E naturalmente non è vero che fosse mai stata brutta, ma è vero che negli anni le era cambiata la faccia, e mica era roba di chirurgia, era proprio lei che non era mai uguale. Per non parlare del suo aver avuto almeno due vite professionali, dalla coperta bagnata antonioniana cui facevano male i capelli alla più grande attrice comica del Novecento italiano.
Ma che vuoi che ne sappiano i giovani d’oggi, quelli dell’epoca in cui un’attrice può recitare solo flebili variazioni di sé, tutto è appropriazione culturale, fare un’altra etnia, un altro sesso, un’altra classe sociale. «A quei tempi ero il tipo di ragazza che pensa che se uno ha le scarpe italiane allora è italiano anche lui», fa dire la Marangoni alla Patanè, cioè il momento in cui la Vitti diventa la Vitti, una che fa ridere, fa innamorare, fa il contrario di quel che ti aspetti, e dice: fate come me, cioè come pare a voi. Vaglielo a spiegare, a una giovane d’oggi che pensa Monicelli sia quello che dava interviste a Santoro, che c’è stato un tempo in cui le commedie erano roba come La ragazza con la pistola, che non tutte le ragazze con la pistola si buttano nel burrone alla fine, alcune restano vive mollando a frignare uomini per i quali resta libera solo la polarità fragile.
Cinquant’anni fa Monica Vitti era Adelaide Ciafrocchi, la fioraia di Dramma della gelosia, un film che oggi varrebbe a Ettore Scola un linciaggio cancellettista (un titolo che fa passare una storia in cui la donna viene ammazzata per una storia d’amore, puntesclamativo). Chiedeva Adelaide allo psicologo del servizio sanitario nazionale: «Di che natura è il mio male: ho avuto un trauma, sono sotto shock, è un disturbo neurovegetativo, o è che sono mignotta?» («Lasci stare i termini scientifici», rispondeva il tapino).
Dieci anni dopo era Luisa Malpieri in Non ti conosco più amore: un’amnesia (simulata, naturalmente) le faceva dimenticare il marito, Johnny Dorelli, e la convinceva d’essere sposata con lo psichiatra da lui portato dal pronto soccorso per curarla. Luigi Proietti, come da nome sulla locandina. «Ma lo sa che la solitudine in due è più solitudine della solitudine da soli? Lo sapevi?», chiedeva la Vitti; «Me pare, adesso ’n me ricordo», rispondeva Proietti, non potendo – limiti dei medici del servizio pubblico, siano essi psicologi o psichiatri – rispondere «sì, è che sei mignotta».
In quel minorissimo film del 1980 c’è anche Franca Valeri, fa la zia che ordina il caviale dopo il dolce, ed è uno strazio rivederli ora, che sono quasi tutti morti ed è cretino cercare di fermare le lacrime ridendo di noi che piangiamo la morte di gente che aveva compiuto ottant’anni o cento; lo sappiamo che siamo ridicoli, ma è che muoiono tutti i giganti, e ci lasciano qui con mediocri che camperanno anch’essi a lungo, e saranno a lungo mediocri.
Vi dirò: per fortuna ogni tanto ne muore uno, permettendoci di ripescare dagli archivi vecchi filmati e di dirci tutti proiettiani, pure i giornali patinati che non lo volevano intervistare perché, santiddio, così romano, e poi così vecchio, e poi neanche ha un film in uscita. Poi vedono i lutti sull’internet e gli viene il sospetto che magari un’intervista a Proietti l’avrebbero letta tre persone in più rispetto a quella alla ventenne che ci spiega i suoi valori veri, e che non ha niente da dire ma ha i pori piccoli. Insomma: rispetto a una giovane d’oggi.