Il 7 ottobre il mondo di Oded e Yocheved Lifshitz, ferventi attivisti per i diritti degli arabi in Israele e in Palestina, è stato sconvolto. Dopo oltre sessant’anni di lavoro per la pace, Oded e Yocheved sono stati rapiti dalla loro casa a Nir Oz e portati come ostaggi a Gaza. Ma la speranza non si è estinta, nonostante le granate esplosive, le piogge di proiettili e le giornate nei tunnel umidi.
Nel quartier generale del Forum delle Famiglie degli Ostaggi e dei Dispersi a Tel Aviv, abbiamo avuto l’opportunità di intervistare Gadi Amichai, il nipote dei coniugi Lifshitz. Yocheved, ottantacinque anni, è stata liberata nel primo scambio (un ostaggio israeliano per tre prigionieri palestinesi) lo scorso novembre, ed è diventata nota alla stampa internazionale per aver stretto la mano a un membro di Hamas e avergli detto «shalom», pace, durante il suo rilascio. Di Oded invece, ottantaquattro anni, l’ultima notizia è che abbia avuto un’emergenza medica mentre si trovava nei tunnel di Hamas. Si presume sia ancora a Gaza, in condizioni incerte.
«Sono qui per raccontarvi di mio nonno Oded, in ostaggio da duecentottanta giorni nei tunnel sotterranei di Hamas, bui e umidi, in un ambiente inadatto per chiunque e in particolare per un uomo malato e anziano», racconta Gadi, stringendo tra le mani un poster con il volto di Oded e la scritta “Bring him home”. «Dobbiamo fare tutto il possibile per ottenere un accordo per il loro rilascio», aggiunge, cercando con lo sguardo Yocheved che, a sua volta, annuisce.
Durante l’ascesa al potere di Hitler, le famiglie dei coniugi Lifshitz fuggirono dalla Polonia e si stabilirono nel sud della Palestina Mandataria, al confine con Gaza. Lì, in un territorio sabbioso e isolato, i due hanno contribuito a costruire – dal nulla – il Kibbutz Nir Oz. «C’erano solo due case e un sacco di sabbia», dice Yocheved.
Pionieri di un nuovo Stato, condividevano la visione di costruire una comunità socialista ed egualitaria. Coltivavano la terra, allevavano bestiame e bevevano caffè con i palestinesi dei villaggi circostanti, convinti che la sicurezza del neonato Stato israeliano dipendesse dalla capacità di convivere con i vicini arabi. «Nir Oz è molto vicino al confine. Da fuori, potresti pensare che sia un posto pericoloso, ma lì io non mi sono mai sentito in pericolo. Ero calmo. Tutti i kibbutzim dell’area sono paradisi creati dal nulla, sorti nel deserto. La casa dei nonni si trova all’estremità del kibbutz, dalla parte del confine, e ha un bellissimo giardino di cactus che hanno coltivato con cura e dedizione in oltre sessant’anni», spiega Gadi.
Oded, ex giornalista, ha scritto in un suo articolo che «quando gli arabi di Gaza non hanno niente da perdere, noi (israeliani) perdiamo alla grande», e questo principio era alla base della sua persuasione pacifista.
Attivisti nella pratica, non solo nelle idee, i Lifshitz portavano figli e nipoti alle manifestazioni tutte le settimane, e per anni si sono occupati di trasportare i malati palestinesi da Gaza agli ospedali israeliani, collaborando con On the Way to Recovery.
Quando, dopo la guerra arabo-israeliana del 1967, Israele ha tentato di evacuare i residenti beduini di Rafah, Oded ha difeso questi ultimi portando la causa ai tribunali israeliani, mentre Yocheved fotografava gli edifici distrutti per sensibilizzare l’opinione pubblica.
Il 7 ottobre il loro kibbutz, come molti altri di Otef Aza (la cintura di territori israeliani confinanti con Gaza), è stato invaso da Hamas e da altre cellule terroristiche palestinesi, che hanno messo a ferro e fuoco il villaggio.
Lì i militanti, tra sparatorie di massa e crimini di guerra, hanno ucciso quarantasei persone e ne hanno rapite settantuno. Due giorni prima del Sabato Nero, Gadi e il nonno si erano incontrati a Haifa: «Era stata una bella riunione di famiglia». Come se avesse un presentimento, Oded gli ha detto: «Sai, ho vissuto per ottantatré anni e ho avuto una vita fantastica. Se dovessi morire domani non sarebbe un disastro, ho solo tante cose da realizzare». Raccontandolo, le mani di Gadi gli tremano leggermente. «Durante l’attacco siamo riusciti a parlare con loro alle 8:34 del mattino. Pur sentendo il rumore degli spari, pensavano di non essere in pericolo e che l’esercito sarebbe presto arrivato ad aiutarli. Non erano preoccupati. Dieci minuti dopo, però, non rispondevano già più. Fino al giorno dopo non sapevamo cosa fosse successo».
Quando cinque terroristi hanno fatto irruzione nella loro casa, Oded e Yocheved si sono nascosti nel mamad (rifugio), ma la porta non aveva chiave. Lui cercava di tenerla chiusa tirandola da un lato, e loro cercavano di aprirla tirandola dall’altro.
A un certo punto, questi ultimi sono riusciti a sparare al braccio di Oded che, ferito, è svenuto. Da quel momento la coppia è stata separata: Oded è stato trascinato sul pavimento in una pozza di sangue, e Yocheved, convinta che fosse morto, è stata trascinata via in camicia da notte e portata su una moto a Gaza. Lì, i palestinesi urlavano «yitbach al yahud» (uccidi gli ebrei) e la colpivano con dei bastoni. I terroristi l’hanno minacciata di tagliarle la mano se non avesse ceduto spontaneamente l’orologio e l’anello nuziale. L’hanno spinta in un tunnel lungo un pendio che scendeva per quaranta metri in profondità, con i muri e il terreno umidi.
Grazie alle testimonianze di alcuni ostaggi rilasciati nella settimana di scambi dello scorso novembre, la famiglia Lifshitz ha saputo che Oded è stato avvistato in uno dei tunnel, dove si trovava finché non ha avuto un’emergenza medica. «Da quel momento in poi, non sappiamo più niente di lui. Se fosse qui oggi, mi direbbe di dirti che lui non è importante. Di smetterla di parlare di lui e di concentrarci invece su tutti gli altri: i feriti, le donne che subiscono abusi sessuali, i bambini…». E nonostante l’orrore vissuto l’impegno della famiglia Lifshitz per la pace e la convivenza rimane incrollabile.
Persuasi che la pace sia una possibilità concreta che richiede coraggio, sacrifici e determinazione, sostengono che trovare un accordo sia la via migliore per riportare a casa tutti gli ostaggi.
Yocheved è tornata in Israele ancora sofferente per gli abusi subiti, ma «non è cambiata, e penso sia lo stesso per Oded», spiega Gadi. «Ma è dura. Un quarto della gente del kibbutz in cui sono cresciuto è morto o è in ostaggio. Dopo tutto l’orrore che è avvenuto lì… dopo tutto quello che ho visto, la gente mi viene a chiedere se ho cambiato opinione. No. Come ha detto Yitzach Rabin negli anni Novanta, oggi più che mai credo che, se da un lato dobbiamo combattere contro il terrorismo in ogni modo possibile – con tutta la forza di uno degli eserciti più forti del mondo – dall’altro lato dobbiamo dare una vera possibilità agli accordi per la pace, perché solo attraverso la riconciliazione possiamo sperare in un futuro di prosperità e sicurezza per tutti».
Il loro giardino di cactus, un’oasi di vita e tenacia nel deserto, è un monumento vivente alla loro visione: una testimonianza che, anche nel terreno più arido, la vita può prendere radici e fiorire. Come cactus che si adattano e resistono alle intemperie, continuano a lavorare con umanità e coraggio per il bene della regione, convinti che la vera sicurezza non nasca dalle armi, ma dalla capacità di costruire ponti, e che, un fiore alla volta, anche nel deserto può fiorire un giardino.