PopulismiLa scelta di Vance dimostra che Trump non si può romanizzare

Le premesse non sono buone, ma forse è ancora presto per dare i democratici – e la democrazia – per spacciati, scrive Francesco Cundari nella newsletter “La Linea”. Arriva tutte le mattine dal lunedì al venerdì più o meno alle sette

LaPresse

Donald Trump, arrivato alla convention repubblicana di Milwaukee con l’orecchio bendato e il carisma di un highlander, ha scelto il suo vice: J.D. Vance. Una scelta che contraddice radicalmente la narrazione su un’imminente svolta ecumenica dell’ex presidente, o quanto meno ne riduce considerevolmente la portata: è ragionevole attendersi che nel suo primo discorso giocherà pure questa carta, provando a recitare anche l’ultima parte in commedia che ancora gli mancava, quella dello statista responsabile, ma ormai è chiaro che durerà poco. Per usare un’espressione tipica del dibattito italiano, peraltro usata quasi sempre a sproposito, Trump conferma che non ha nessuna intenzione di lasciarsi «romanizzare», neanche questa volta.

Quanto al suo vice, il Corriere della sera ricorda una folgorante sintesi del New Statesman di due anni fa: «Primo: frequenta una università Ivy League e lavora per una prestigiosa rivista di diritto. Secondo: scrivi un memoir lirico sulle tue origini in una famiglia difficile. Terzo: diventa senatore di uno stato del Midwest. Quarto: diventa presidente degli Stati Uniti. Questa è stata la traiettoria di Obama. Potrebbe essere anche quella di J.D. Vance?». Il fatto è che Vance, per molti versi, è l’esatto contrario di Barack Obama, o meglio la sua versione speculare: il giovane che si è fatto da solo, partendo da condizioni sociali e familiari difficili, e che ha cantato e poi incarnato non il sogno di riscatto dei neri, ma il desiderio di rivalsa dei bianchi.

Per maggiori dettagli, e una ventata di ottimismo, segnalo quanto ne scrive su Linkiesta Christian Rocca, di cui qui mi limito a riportare la conclusione: «Vance è un’ulteriore radicalizzazione del populismo di Trump, affidata non a un utile idiota qualsiasi, ma a un personaggio più misogino e più autoritario del titolare, e probabilmente anche più capace del suo capo.

Nel 2020 e a gennaio del 2021, Trump ha provato a sovvertire la democrazia americana, ma è un truffatore da reality show, uno che nel business è fallito numerose volte, uno che quando era alla Casa Bianca era troppo pigro e interessato esclusivamente al suo brand per studiare, leggere i dossier e portare a compimento tutti i suoi progetti deliranti, compreso il fallito colpo di Stato del 6 gennaio 2021. Vance, al contrario, è un Trump preparato, efficiente, freddo. Un Trump più spregiudicato, uno che può riuscire a trasformare l’America in un regime autoritario. Se possibile, Vance è ancora più pericoloso dell’originale». Le premesse, insomma, non sono delle migliori. Ma potrebbe essere ancora presto per dare i Democratici – con la maiuscola, ma anche con la minuscola – definitivamente per spacciati (e non solo per l’endorsement di Matteo Salvini a favore di Trump).

Intervistato dal Corriere della sera, lo scrittore Jonathan Safran Foer torna oggi sul momento decisivo in cui il leader repubblicano si è rialzato dopo gli spari: «Devo essere onesto e ammetterlo: non mi piace per niente e spero che perda, ma quella reazione è incredibile. I traumi, le emergenze rivelano qualcosa di noi, non necessariamente qualcosa di importante. Voglio dire: se uno reagisce bene in una situazione come questa non significa che reagisca bene quando la Russia invade l’Ucraina. Però io mi sarei aspettato che Trump si nascondesse dietro le altre persone e invece non l’ha fatto».

E tuttavia Safran Foer aggiunge due osservazioni di segno apparentemente opposto, che condivido entrambe: «È stato un momento drammatico, lui appare davvero forte. E questo è un terribile contrasto con il modo in cui appare Biden, con la sua fragilità. Quindi avrà sicuramente un impatto. Però gli americani hanno la memoria corta: se si guarda ai social ora si vede che la gente è commossa, ma tra qualche giorno magari è già passata ad altro».

Come ho scritto ieri in questa newsletter, condivido sia l’idea che questa immagine di forza renda più urgente che mai il ritiro di Biden, sia l’idea che nel mondo di oggi (non solo negli Stati Uniti, in verità) anche gli eventi più giganteschi siano immediatamente consumati dall’opinione pubblica, tra una scrollata di smartphone e una scrollata di spalle. Ragione di più per sperare che un diverso candidato dei democratici possa ancora, nonostante tutto, cambiare la partita. È difficilissimo, ovviamente. Ma non è impossibile.

Questo è un estratto di “La Linea” la newsletter de Linkiesta curata da Francesco Cundari per orientarsi nel gran guazzabuglio della politica e della vita, tutte le mattine – dal lunedì al venerdì – alle sette. Più o meno. Qui per iscriversi.

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