In un mondo normale, la disastrosa prova data da Joe Biden nel dibattito con Donald Trump, con tutto quello che evidenziava circa le sue reali condizioni psico-fisiche, renderebbero la sconfitta dei democratici praticamente scontata, senza nemmeno bisogno di aggiungere l’effetto prodotto dal successivo attentato al leader repubblicano. Dopo tutto questo, in un mondo normale, Trump non dovrebbe avere neanche bisogno di fare campagna elettorale. Ma in un mondo normale Trump non sarebbe nemmeno candidato, non lo sarebbe mai stato, e se anche lo fosse stato, a quest’ora sarebbe già in galera da un pezzo.
Nel mondo in cui viviamo, dunque, ci piaccia o no, il gran casino aperto dal tardivo ritiro di Biden in favore di Kamala Harris, con tutti i relativi retropensieri e retroscena, con tutta quella selva di complicazioni pratiche, legali, politiche e sentimentali di cui verosimilmente non smetteremo di occuparci fino a novembre, rappresenta esattamente ciò di cui i democratici avevano bisogno: la nuova grande storia che occupa la scena e fa sembrare già vecchio di secoli lo stesso attentato alla vita di Trump.
D’altra parte, come scrive Christian Rocca nel suo editoriale, in tempi normali «anche un comodino avrebbe la strada spianata contro un candidato come Trump che ha tentato di corrompere il sistema democratico americano, ha istigato l’assalto violento al Congresso durante un colpo di stato fallito, è stato giudicato colpevole di trentasei capi di imputazione, è stato riconosciuto come stupratore da una corte, ha subito due impeachment, amoreggia con i dittatori ed è nelle tasche dei russi, gli storici nemici degli Stati Uniti»
Ma abbiamo già chiarito che questi non sono tempi normali. E nei tempi niente affatto normali che ci tocca vivere, come nota Rocca, presentarsi con una candidata considerata debole negli stati della cosiddetta cintura della ruggine, che saranno decisivi nell’elezione del successore di Biden, resta comunque un rischio altissimo.
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