Un nome che richiama l’estero ma che in realtà è quello di un prodotto italianissimo, il vermut, vermouth o vermout – tutte diciture corrette, perché declinazioni del termine wermut, di origine tedesca, utilizzato per definire il suo principale aromatizzante, l’Arthemisia Absinthum cioè l’assenzio – nato nel 1786 a Torino da un’intuizione di Antonio Benedetto Carpano, che, dopo un periodo di studi da erborista, miscela erbe e spezie con il vino moscato.
Anche se pare che Ippocrate già usasse aromatizzare il vino con erbe, spezie e miele, così come facevano i Greci e i Romani per conservare a lungo il nettare di Bacco, alla nobile e aristocratica Torino dell’Ottocento si deve il merito di aver fatto del vermut un simbolo di cultura e di abitudine italiana, che oggi sta tornando in auge dopo il declino degli ultimi anni in cui questo vino aromatizzato è stato utilizzato, per lo più, nella mixology perdendo il suo carattere da protagonista, sì appartenente a un’altra epoca, ma sempre attuale, portatore di storia, cultura e territorio.
A tal proposito, se è vero che il Piemonte è, storicamente, la regione del vermut, chi l’ha detto che non si possa produrre dell’ottimo vermut anche in Romagna?
Il 29 giugno scorso all’interno della Liuteria Diego Suzzi di Cesena si è per la prima tenuto Vermù, festival dei vermut romagnoli nato da un’idea di Stella Palermo e con il patrocino del Comune di Cesena. Attraverso quattordici produttori – tutti romagnoli tranne uno emiliano, di Sassuolo, in provincia di Modena – l’evento ha delineato il movimento di questo vino aromatizzato in Romagna con l’obiettivo di veicolare la (ri)scopera del vermut, suscitare curiosità nei consumatori, accrescere consapevolezza negli addetti ai lavori – a chi sta dall’altra parte del bancone – educando a un prodotto di nicchia che, qui, è ora più che mai in voga, ma che richiede di essere spiegato, capito prima di essere raccontato e proposto.
La storia della medicina e dell’alchimia ha Paracelso e Fioravanti, la Romagna ha Baldo Baldinini, alchimista profumiere e liquorista, nominato Maestro d’Arte e Mestiere da Fondazione Cologni e ALMA – Scuola Internazionale di Cucina Italiana – che unisce le sfere sensoriali di olfatto e gusto, trovando massima espressione nel vino aromatizzato, di cui amplifica il potenziale aromatico della base di partenza. Il vino, come elemento fondamentale e mutevole di ogni vendemmia, viene rispettato ed esaltato nelle caratteristiche di ogni singola annata, da quello che si può definire il pioniere in termini di vermut in Romagna, che declina in quelli di Tenuta Saiano – che, a Torriana di Rimini, ospita la sua ricerca e il suo Olfattorio – e in quelli a marchio Dibaldo.
La Romagna è parte di una regione che racchiude piccole sottozone territoriali con caratteristiche diverse, che danno risultati diversi all’interno di un bottiglia di vermut, i cui produttori, oggi, condividono alcune peculiarità come l’artigianalità, i volumi ridotti di produzione, l’utilizzo di aromi, oli essenziali, spezie locali e il tema del recupero: il punto di partenza è un vino che, nella maggior parte dei casi, non è nella sua massima forma in quanto tale, che non ha mercato in cantina, e si recupera rinforzandolo e aromatizzandolo, dando vita a qualcos’altro che però rimane saldamente legato all’espressione di questo territorio. Un recupero, quindi, che non disprezza il prodotto ma gli dà valore.
Qui, in Romagna, c’è chi il vermut lo ha cominciato a fare parecchi anni fa, per caso, come la famiglia Baravelli, proprietaria dell’azienda agricola Calonga, a Forlì, che, preservando gli usi, la terra e gli aromi della Romagna e recuperando la tradizione del vermut, grazie al legame con Baldo Baldinini, ne ha creati due – prima il rosso da Sangiovese Leggiolo, poi il bianco da uve di Bombino Bianco – che incontrano più di venti botaniche.
Fantasia, estro e genialità che si ritrovano anche nei produttori più recenti come Villa Papiano; qui la storia è quella di un’oasi naturalistica a ridosso del Parco Nazionale delle Foreste Casentinesi – a Modigliana –, di una viticoltura appenninica di confine, tra la Romagna e la Toscana, e di quattro fratelli che hanno studiato a lungo una ricetta per dare vita al loro vermut Tregenda, che prende il nome dal vitigno utilizzato, un’Albana vendemmia tardiva, e che vuole essere una dedica al Mediterraneo, attraverso l’aggiunta di fiori, lavanda, bergamotto, erbe aromatiche e spezie.
C’è anche chi ha appena terminato di mettere a punto la sua ricetta e sta uscendo ora con le prime bottiglie, come La Sabbiona, cantina e agriturismo di Faenza, che da un’idea del 2019 ha dato vita al suo vermut nel 2023 a partire da un vino bianco da uve Famoso, con l’aggiunta di piante officinali, mirtilli Rio Del Sol, petali di rosa; e chi invece, come Massimo Randi, dell’Azienda Agricola Randi, dalla pianura di Fusignano (Ravenna) è andato nella terra del vermut, ad Asti, con le proprie uve a bacca rossa Longanesi, per produrre Felicetto, un vermut dal cuore piemontese ma che parla chiaro di Romagna.
Come sostituto dell’amaro a fine pasto con un cubetto di ghiaccio, con due terzi di acqua tonica e due terzi di kombucha a creare la “vermucha”, bianco, a preparare uno spritz, liscio freddo o con ghiaccio oppure in mixology con pochi altri ingredienti, come nel MiTo. In Romagna sono tutti d’accordo sulle infinite possibilità di utilizzo e servizio di questa bevanda e all’unanimità d’accordo che una decina di anni fa un festival di vermut romagnoli sarebbe stata un’utopia, che oggi esiste seppur con le difficoltà che sono proprie di un’evoluzione, un cambiamento, non tanto produttivo, quanto commerciale, di racconto e vendita.
Questa tendenza locale – dalla risonanza anche non locale – parla di un prodotto della terra, che nasce dal lavoro in vigna prima, in cantina poi, di artigiani che impiegano il loro tempo per dare un valore che giustifica un prezzo diverso da quello di un prodotto industriale e che dev’essere però veicolato da chi ha il contatto diretto con il consumatore finale – per essere compreso e accettato – attraverso l’utilizzo del vermut nelle sue proposte. I produttori si mettono in gioco per raccontare un prodotto diverso, il primo obiettivo è farlo capire bene agli operatori del settore, sensibilizzando prima loro e poi, conseguentemente, il cliente.
Il coraggio di osare, la costanza e la perseveranza, tipici degli abitanti di questo lembo di regione, non è sufficiente a far emergere un territorio produttivo di vermut che ha tutte le caratteristiche per distinguersi e creare un fenomeno simile a quello del gin degli ultimi anni.
La cultura che parte dai produttori è solo lo scudo di chi prepara da bere per i suoi commensali o per chi si siede al banco. Questi devono, però, conoscerne la complessità, per permettere davvero al vermut di vivere questa seconda vita, lontano da quella rilegata per lungo tempo a bevanda prettamente da miscelazione.
Come? «Offrendo una nuova bevuta, elegante e spensierata, valorizzando i nostri vitigni locali».