Quando ancora la cultura pop non era così pervasiva, non tutti avevano capito che il protagonista di “The Legend of Zelda” si chiamasse Link e non Zelda. Questo equivoco, che chiaramente origina dal titolo della serie di videogiochi, prese la forma di un meme antico. I fan, al contrario, avevano perfettamente chiaro chi fosse Link e chi fosse Zelda, chi l’eroe da comandare nel gioco e chi il personaggio femminile appuntato alla funzione archetipica della damigella in pericolo e della donatrice. Una damigella in pericolo è anche Peach, la principessa compulsivamente rapita nei videogiochi della serie di Mario, solo che questi si chiamano Super Mario e non Super Peach – con l’esclusione di un paio di iterazioni. Poi, a giugno, è stato annunciato “The Legend of Zelda: Echoes of Wisdom”: il primo gioco della serie principale di “The Legend of Zelda” in cui la protagonista giocabile è, effettivamente, Zelda. Nintendo ha avverato il meme.
Che questo accadesse era nell’aria. Innanzitutto perché, in quest’epoca di dominio assoluto delle proprietà intellettuali, si sta cercando di dare nuova vita ai soliti franchise raccontando le storie da un punto di vista femminile. Inoltre, Nintendo è su questa traiettoria da un po’: chi ha visto Super Mario Bros. – Il film (2023) avrà notato che, nell’opera d’animazione, la Principessa Peach ha un ruolo non secondario rispetto a quello dell’idraulico italiano e che il suo volto è stato ridisegnato più a fondo, in modo da farlo apparire meno stereotipato.
Durante l’ultimo Nintendo Direct, la conferenza on-line con cui la casa di Kyoto mostra le novità in serbo per il futuro, i fan hanno assistito al trailer di “The Legend of Zelda: Echoes of Wisdom”. Nel gioco, Link è sparito e toccherà a Zelda fare tutto il lavoro. Quello in uscita a settembre del 2024 su Switch promette di essere un titolo innovativo anche per altri versi: a giudicare dal trailer, non è previsto l’utilizzo di armi in senso stretto e la meccanica fondamentale sembra essere la clonazione di oggetti e personaggi con cui superare ostacoli o risolvere puzzle. Nintendo ha adoperato un metodo storicamente verificato, che consiste nell’utilizzare i capitoli in due dimensioni (2D) di “The Legend of Zelda” per mettere alla prova le idee più radicali, cioè sperimentare.
“The Legend of Zelda: Ocarina of Time”, uno dei migliori videogiochi di sempre per tendenziale comune accordo della critica, è la prima iterazione della serie ad aver abbracciato le tre dimensioni. Da qui in poi (siamo nel 1998), si avrà come una separazione informale tra episodi in 3D principali ed episodi in 2D laterali, più aperti alle innovazioni. Va premesso che la linea di confine non è poi così netta, perché più o meno tutti i capitoli della saga hanno alla base un’idea forte e nuova. Tuttavia, alcune delle idee più azzardate sono state perseguite nel troncone in due dimensioni di un franchise che conta venti opere interattive principali.
“The Legend of Zelda: Oracle of Ages” e “Oracle of Seasons” compongono un dittico pubblicato nel 2001 per Game Boy Color. Sviluppati da Capcom e pubblicati da Nintendo, hanno un maggior focus sui puzzle (Ages) o sull’azione (Seasons). Collegare due Game Boy consente di cambiare alcuni eventi nel gioco e accedere eventualmente al vero finale della storia. Qualcosa di simile succede con Four Swords Adventures, multiplayer giocabile con quattro Game Boy Advance, tutti collegati alla stessa Gamecube. Nel titolo del 2004, i player hanno una visuale d’insieme sullo schermo della televisione e una personalizzata e indipendente sull’hardware portatile.
Oggi non è facile immaginare un’epoca recente in cui “The Legend of Zelda” non dominasse l’immaginario, ma nel 2007 il franchise di Link era in crisi di popolarità. Per questo, la dirigenza Nintendo si mosse a rimorchio di alcuni titoli improntati sull’utilizzo del touch screen di Nintendo DS, ad esempio “Brain Training”. Lo scopo era reclutare nuovi appassionati: “Phantom Hourglass” (2007) e “Spirit Tracks” (2009), entrambi per la console portatile con il doppio schermo, hanno puntato tutto su pennino e schermo sensibile al tocco. “A Link Between Worlds”, uscito su Nintendo 3DS nel 2013, rappresenta il ritorno all’approccio aperto del primo capitolo del 1986. Il giocatore non si muove lungo un percorso a senso unico tra i livelli (in “The Legend of Zelda” si chiamano dungeon), che invece possono essere affrontati in ordine sparso a patto che si abbia l’attrezzatura giusta, disponibile fin da subito presso i negozianti. “Tri Force Heroes” (Nintendo 3DS, 2015) è un videogioco multiplayer online in cui tre giocatori possono collaborare per risolvere dei puzzle comunicando tramite emoji.
Ora, basta dare uno sguardo al trailer per capire che “Echoes of Wisdom” non è esattamente in due dimensioni, come invece lo sono i capitoli usciti su Game Boy o Super Nintendo. Però quel tipo di prospettiva dall’alto è l’eredità diretta dell’impostazione 2D all’epoca dettata dalle limitazioni dell’hardware. Lo dimostra il fatto che, quando Nintendo ha fatto un remake per Switch di “Link’s Awakening”, uscito per Game Boy nel 1993, ha scelto un’estetica identica a quella che riproporrà con “Echoes of Wisdom”. Mettere il giocatore nei panni di Zelda è una rivoluzione, scegliere le due dimensioni (o la loro versione moderna) per farlo è, al contrario, proprio quello che Nintendo ha fatto da sempre