Agente moraleAbbiamo paura di perdonare, ma anche di essere perdonati

Una psicoterapeuta che a suo tempo ha fatto parte della Commissione per la verità e la riconciliazione nel Sudafrica post-apartheid racconta come si può iniziare a immaginare un futuro condiviso in un Paese traumatizzato a causa del suo stesso passato

EMILIO MORENATTI/AP PHOTO

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Negli anni in cui ho fatto parte della Commissione per la verità e la riconciliazione del Sudafrica, sono giunta a una convinzione sorprendente che si è cristallizzata quando ho invitato la figlia di un’attivista anti-apartheid alla University of the Free State di Bloemfontein, presso cui ero professoressa emerita, per parlare del suo incontro con l’uomo che aveva ucciso sua madre. Marcia Khoza aveva cinque anni quando sua madre fu uccisa in un raid guidato da Eugene de Kock, l’ex capo delle operazioni segrete del governo dell’apartheid. Nel ventitreesimo anniversario della morte della madre, Khoza andò a trovare de Kock in prigione, portando con sé un libro sul perdono che aveva comprato per lui. All’interno del libro aveva scritto: «Lasciati guidare dal potere della pace e del perdono».

In quel suo intervento alla University of the Free State, Khoza descrisse come fosse cresciuta percependo un vuoto sempre più profondo. «Mi sono portata dietro tanta rabbia», disse. Aveva lasciato che la rabbia si acuisse sempre di più per proteggersi dal rischio «di cadere nell’abisso». Khoza voleva incontrare de Kock per colmare la lacuna costituita dalle domande senza risposta sull’uccisione di sua madre. E, come parte della sua ricerca di pace interiore, era pronta a perdonarlo.

Quando sono entrata a far parte della Commissione, sembrava controintuitivo il fatto che incontrare qualcuno che aveva ucciso una persona cara potesse avere un effetto riparatorio per entrambe le persone. Ma il perdono, ho poi capito, è forse il mezzo più potente per ripristinare un senso di coerenza e di continuità nelle vite di chi è sopravvissuto a ferite di portata storica. Anche se si può avere un’incredibile paura di adottare una simile visione.

Il perdono emerge sia dall’interno sia dall’esterno del luogo in cui è stata inferta la ferita e richiede un certo grado di apertura volontaria: ed è proprio lì che risiede sia il suo potenziale trasformativo sia la sua ambiguità morale – ed è questo l’aspetto del perdono che suscita più paura. Il viaggio psicologico interiore necessario per poter perdonare ci permette di vedere l’umanità dei responsabili della nostra ferita e ci permette di ammetterli, dopo che li abbiamo perdonati, nel nostro stesso mondo sulla base del fatto che condividiamo con loro la condizione umana.

Abbiamo forse paura di ciò che il perdono potrebbe rivelare di noi stessi – paura che il perdono possa metterci di fronte all’essenza della nostra identità, alla nostra capacità di provare compassione anche di fronte a fatti che sfidano la comprensione? Abbiamo paura che perdonare possa essere un atto di tradimento, che possa trascinarci a sentire un senso di “comunità” con delle persone che hanno commesso atti orribili contro di noi e contro i nostri cari? Forse la nostra paura di perdonare riflette un’ansia profonda: il timore di dimenticare le sofferenze patite dai nostri cari, qualora lasciassimo scorrere via il risentimento nei confronti di chi ha inferto quelle sofferenze.

Forse abbiamo paura di perdere la nostra identità di vittime e il potere che essa ci conferisce. Forse la cosa che temiamo di più è che, perdonando, finiremmo di consegnare il nostro potere al destinatario del nostro perdono. Oppure temiamo l’incertezza intorno a ciò che potrebbe accadere dopo il perdono: l’atto di perdonare finirebbe forse per condonare, come se niente fosse, l’accaduto, affidando in questo modo al caos ogni speranza di riconciliazione? È quindi più facile aggrapparsi al terreno familiare della violenza e della disumanizzazione, senza tentare di creare le condizioni che possano favorire la nascita di legami di umanità con gli altri?

Lungi dall’essere un gravoso atto di sacrificio morale, il perdono può essere profondamente ristoratore. Mi sono resa conto che le condizioni da cui scaturisce il perdono sono più importanti dell’atto stesso di perdonare. La flessibilità psicologica e morale necessaria per un gesto di perdono – anche quando la propria bussola interna punta nella direzione opposta e il colpevole sembra immeritevole – è proprio ciò che ci prepara a immaginare una realtà in cui iniziamo a guarire. E ci aiuta anche a considerare il percorso della persona che stiamo perdonando.

Il concetto di perdono tende a porre l’attenzione solo su colui che perdona. Tuttavia, per essere utile in contesti che cercano di scrollarsi di dosso un periodo storico violento, il significato del perdono risiede nella nostra capacità di immaginare un nuovo futuro condiviso. Ciò significa che quelli che sono sopravvissuti a dei torti di portata storica non sono gli unici che potrebbero trovarsi di fronte alla paura quando pensano al perdono.

Ma di che cos’è che potrebbero avere paura gli autori di crimini contro i diritti umani e i beneficiari di questi crimini? Forse del fatto che un gesto di perdono da parte di un sopravvissuto potrebbe costringerli ad affrontare la verità morale dei crimini che hanno commesso o di cui hanno beneficato: per costoro potrebbe quindi trattarsi della paura di guardare quell’oscurità fin nelle sue profondità più abissali, rendendosi conto che il perdono potrebbe disfare il tessuto stesso della loro identità.

Nell’ambito del mio lavoro di ricerca e di dialogo con gli autori di gravi crimini contro i diritti umani in Sudafrica, una volta ho invitato a lezione un ex attivista anti-apartheid che era stato perdonato dalla madre della vittima nel cui omicidio era stato coinvolto. L’attivista è stato accolto dai familiari della vittima e ha persino instaurato un rapporto di amicizia con loro. A un certo punto, però, il giovane ha interrotto quel rapporto e si è messo a rubare auto e a fare rapine insieme ad alcuni suoi coetanei. Allora, la famiglia della vittima lo ha cercato e ha sostenuto i suoi sforzi per ricostruirsi una vita da cittadino responsabile. Ironia della sorte, a volte l’onere di creare dei percorsi che permettano all’autore di un crimine di lasciarsi alle spalle il proprio passato delittuoso e diventare un “agente morale” nell’ambito del consorzio umano finisce per ricadere proprio sulla famiglia della vittima.

La memoria delle tragiche vicende storiche connotate da violenza e oppressione si perpetua sia nei discendenti delle vittime sia in quelli dei carnefici. Il perdono è importante, ma ancora più importanti sono le dinamiche cumulative, a volte sottili e impercettibili, che si innescano in questi incontri per fare i conti con il passato. Ma forse ciò che temiamo è proprio la parola “perdono” in quanto tale, perché ci sembra che suggerisca una posizione fissa o la fine di qualcosa, evocando l’atto di lasciarsi qualcosa alle spalle e di andare avanti senza guardarsi indietro. Ma invece ciò che ha causato la rottura deve continuare a essere pianto: il perdono infatti non è la chiusura di qualcosa, ma è l’apertura di un nuovo capitolo, l’inizio del viaggio verso la riparazione.

© 2024 THE NEW YORK TIMES COMPANY AND PUMLA GOBODO-MADIKIZELA

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