Capitalismo verdeL’ultimo tentativo di monetizzare i servizi ecosistemici riguarda i cetacei

Nel libro “Quanto vale una balena” (add), Adrienne Buller spiega che il Fmi ha stimato che la conservazione di questi esemplari costerebbe a ogni cittadino tredici dollari. Ma la stima è solo un nuovo modo per commercializzare l’ecologia

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Un team di ricercatori del Fondo monetario internazionale (Fmi) si è posto di recente una semplice domanda: quanto vale una balena? La stima conclusiva si è fissata sulla cifra tonda di due milioni di dollari a esemplare – solo per i grandi cetacei – per l’impressionante somma di mille miliardi di  dollari per lo stock globale esistente. Il calcolo si fonda sul contributo degli animali al fatturato dell’ecoturismo (ironicamente dannoso per i cetacei stessi) e sulla loro abbondante capacità di smaltimento carbonico: nel corso della vita, una balena media intrappola l’equivalente di trentatré tonnellate di anidride carbonica, più di quanto faccia un albero della stessa stazza.

Riconoscendo che, se a questo stock fosse permesso di tornare ai suoi livelli precaccia intensiva, potrebbe smaltire 1,7 miliardi di tonnellate di Co2 ogni anno, i ricercatori del fmi hanno candidamente consigliato di investire nella conservazione dei cetacei più che in altri metodi per smaltire la Co2. Il costo globale stimato per questo sforzo di conservazione è modesto: tredici dollari annui per ogni essere umano. Tredici dollari: ecco quanto vale una balena per ciascuno di noi.

Il mio primo ricordo di un incontro con una balena risale a quando avevo sette anni, lo sguardo fisso sull’umido orizzonte su un traghetto sputagasolio partito da Tsawwassen, nella Columbia Britannica. D’un tratto, eccola: una massa levigata di carne grigio piombo che si alza dalla cupa distesa del Pacifico, un pennacchio d’acqua, ed è già svanita. Non sarà durato più di una manciata di secondi, ma ricordo che, in piedi nel mio impermeabile fluorescente, ho avuto la netta sensazione che un velo si fosse sollevato per mostrarmi un altro mondo. Fin da allora, ogni volta che sono stata abbastanza fortunata da trovarmi in riva al mare ho sondato furtivamente l’orizzonte, sperando in un’altra silenziosa comunione. Forse, nella mia immaginazione, il destino dei cetacei ha un posto più grande rispetto a quanto ne abbia in quella delle altre persone ma è ormai un fatto che la loro sorte è sempre di più un indicatore della nostra.

Parlando di conservazione, un tempo le balene erano considerate una storia di successo. Nel XX secolo, la caccia industriale dei cetacei ha massacrato circa tre milioni di esemplari, riducendo del novanta per cento la popolazione di alcune specie e portando sull’orlo dell’estinzione gli habitat che dipendono da esse. Negli anni, quando l’olio di balena fu sostituito dai carburanti fossili e dopo la moratoria della Commissione internazionale per la caccia alle balene del 1986, molte popolazioni crebbero.

Oggi i cetacei affrontano nuove minacce: l’intensificarsi delle rotte commerciali internazionali ne disturba la capacità di comunicare, riempiendo di rumore i loro percorsi migratori. In oceani sempre più caldi e acidi a causa dell’incessante afflusso di Co2 nell’atmosfera, le loro fonti di cibo e i loro ambienti vitali si stanno riducendo. In parte perché grandi e longeve, le balene sono particolarmente vulnerabili all’inquinamento che riversiamo negli oceani, e portano nella loro carne la firma del nostro impatto sul pianeta. Il grasso di alcuni esemplari ha accumulato livelli così alti di metalli pesanti e tossine che i loro corpi spiaggiati devono essere smaltiti in stabilimenti per materiali pericolosi.

Malgrado siano stati messi al bando una quarantina d’anni fa, oggi i pcb – agenti chimici trovati nei fluidi refrigeranti e negli elettrodomestici – minacciano di estinzione metà delle orche del pianeta, accumulandosi nel loro grasso e risalendo la catena alimentare attraverso i cuccioli. I pcb perpetuano gli effetti ben oltre la loro proibizione e si accumulano in concentrazioni tossiche perfino nel latte delle madri inuit che seguono ancora la dieta tradizionale. I corpi dei beluga negli

angoli più remoti del Mar Glaciale Artico sono invasi dalle microplastiche. Le organizzazioni che tengono traccia delle morti di balene spiaggiate segnalano il rinvenimento nei loro stomaci di contenuti sempre più inquietanti. Come documentato da Rebecca Griggs nel libro “La regina dell’abisso”, alcuni anni fa un cetaceo fu trovato spiaggiato su una costa spagnola con un’intera serra ripiegata nelle viscere.

Di fronte a simili minacce e sul costante sfondo di una crisi climatica che continua a crescere, ammetto di essermi chiesta: dovremmo abbracciare gli sforzi del Fmi per incoraggiare l’investimento nella conservazione dei cetacei e smaltire Co2 senza spendere in infrastrutture enormi e costose? È un quesito ragionevole, inquadrato in parametri all’apparenza sensati; ma anche per chi non prova particolare simpatia per le balene, si può dire che l’idea di assegnare

loro un cartellino del prezzo suona istintivamente bizzarra. Inserire variabili in un foglio di calcolo per valutare il rapporto costi-benefici nel salvare una specie, come si farebbe per un’acquisizione aziendale, è un parallelo difficile da prendere sul serio. In molti potranno risentirsi all’idea di assegnare un valore in dollari a una forma di vita senziente; altri penseranno che due milioni siano una cifra troppo alta; e a molti non importerà granché.

Spero però di convincervi che dovrebbe importare a tutti perché, comunque la si pensi al riguardo, la monetizzazione dei grandi cetacei non è il solo calcolo attualmente in corso nelle stanze del potere politico ed economico.

I capi di Stato e i leader finanziari globali si incontrano sempre più spesso in modo riservato per dibattere onestamente su come meglio monetizzare e mercificare i cosiddetti «servizi ecosistemici», ovvero l’acqua potabile e l’aria respirabile forniteci da un ambiente in salute. La creazione di mercati per lo scambio di molecole di Co2 è la massima priorità di infinite conferenze sul clima. Si sono fatte proposte di approcci intergovernativi alla «compensazione della biodiversità», in cui la distruzione di un ecosistema biodiverso si possa depennare dall’equilibrio ecologico creando altrove un ecosistema di ugual «valore». Balene, elefanti, torbiere, aria pura: pochissimo è sfuggito allo sguardo rapace dei contabili di tutto il mondo. Non si tratta di iniziative di nicchia: questa sta diventando la posizione standard di chi impugna il timone della risposta alla potenziale catastrofe climatica e ambientale.

E neppure si tratta di iniziative nuove. Già nel 1996, un team di ricercatori stabilì in trentatremila miliardi di dollari il valore della natura terrestre, quasi il doppio del pil globale dell’epoca.5 Una più recente analisi del Forum economico mondiale ha stimato che circa il 50% del pil globale «dipende dalla natura in misura elevata o moderata»,6 portando di fatto il «valore» complessivo degli ecosistemi del pianeta a circa quarantaquattromila miliardi di dollari. Senza dubbio una bella cifra, ma non molto di più della capitalizzazione totale di mercato dell’s&p 500 (un indice azionario formato dalle cinquecento maggiori aziende statunitensi).

Fra numeri da prima pagina e balene da due milioni di dollari, è facile derubricare questi studi all’equivalente economico del clickbait, o a fisime da analisti finanziari; per esempio, è difficile capire come la metà di tutto il pil possa rimanere invariata dopo un collasso dei sistemi naturali e, di conseguenza, dell’altra metà del Pil. Tuttavia, l’idea che prezzi, mercati e astuti prodotti finanziari siano la soluzione alla crisi ecologica è l’assunto fondante delle politiche climatiche e ambientali.

Da quando la crisi climatica e naturale ha fatto il suo ingresso nell’agenda politica, l’ossessione per il mercato e per le più miopi priorità economiche ha plasmato non solo la reazione a quella crisi da parte di chi si trova in posizioni di potere – governi, strateghi, perfino eminenti organizzazioni non governative (Ong) – ma anche il loro (e nostro) modo di concepirla e rapportarsi a essa. In breve, questi paraocchi hanno ristretto la nostra capacità di immaginare un approccio alternativo.

Tratto da “Quanto vale una balena: Le illusioni del capitalismo verde” di Adrienne Buller (add), pp.372, 22€

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