Gabbie dorateIn Norvegia umanizzare la detenzione è una priorità

In un contesto alienante come quello del carcere è fondamentale preservare la vita sociale e i rapporti umani. Il sistema norvegese prevede incontri settimanali con i familiari, attività ricreative e la presenza di funzionari penitenziari altamente specializzati

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Le porte del carcere di Oslo si spalancano per fare entrare il nostro ipotetico detenuto, giunto al terzo episodio dell’inchiesta dedicata al sistema correzionale norvegese. Il carcere cittadino è anche quello forse più iconico, con l’ingresso nel braccio «A» (ora chiuso) che si affaccia sul quartiere multietnico di Tøyen, non lontano dal centro. Poco lontano vi è la moschea cittadina, e il lungo viale che taglia in due la città vecchia è costellato da ristoranti e negozi esotici.

Con i suoi duecentoquarantatre detenuti, è il secondo carcere più popolato del paese. La parte destinata alle visite ricorda in parte un asilo o un’aula di una scuola elementare: arredamento spartano, nel braccio «B» c’è una libreria, una piccola sezione dedicata ai giochi per i bambini e alcune poltrone e tavolini per gli incontri a contatto, mentre fuori c’è un giardino con un dondolo a ridosso di un murales. Gli incontri nel braccio «A» avvengono solamente con un vetro a separare i detenuti dai visitatori, esattamente come nei film o nelle serie tv. 

Normalmente ai detenuti è consentito un incontro a settimana (durante i quali possono essere consentiti rapporti sessuali), mentre per i detenuti con figli è previsto un incontro aggiuntivo a settimana. I contatti telefonici sono di massimo venti minuti a settimana nelle carceri ad alta sicurezza, mentre normalmente non ci sono limiti di tempo per gli altri detenuti.

«In Italia abbiamo centottantanove carceri per adulti e diciassette per minori», informa Alessio Scandurra dell’Osservatorio per la Detenzione del gruppo Antigone. «Il carcere più grande. Poggioreale a Napoli, ospita duemilacinquantacinque persone. Il più piccolo, Sciacca in Sicilia, ne ospita ventuno, ma la dimensione media di un carcere italiano è intorno alle trecentoventi presenze».

La detenzione, in Norvegia, è divisa in quattro soluzioni: alta sicurezza, bassa sicurezza, casa di transizione e arresti domiciliari. Le case di transizione vengono utilizzate da quei detenuti che hanno la possibilità di lavorare durante l’orario diurno, ma che devono sottostare a un regime di detenzione durante le ore notturne. In Norvegia ve ne sono otto, ospitano circa centotrenta detenuti. Senza tenere conto delle case di transizione, un carcere in media ospita settantaquattro detenuti.

Qui Scandurra ci spiega la differenza fra fra Italia e Norvegia: «La gran parte delle persone in Italia è in regime di media sicurezza, ma abbiamo poi tre livelli di Alta sicurezza (circa novemilacinquecento persone) ed infine quelli in 41bis (settecentotrentatre persone). I detenuti in media sicurezza possono effettuare fino a sei telefonate al mese, di dieci minuti ciascuna, e fino a sei colloqui al mese, di un’ora ciascuno, in presenza o in videochiamata».

Gli incontri sono, comprensibilmente, una componente fondamentale per il mantenimento della vita sociale in carcere. Lo spiega Bente Grambo, consulente dell’Organizzazione per i Parenti dei Detenuti: «La maggior parte dei familiari che ci contattano, desiderano mantenere un rapporto con i detenuti, sono pochi i parenti che si rivolgono a noi pur interrompendo i rapporti, abbiamo gruppi di supporto per i casi di violenza sessuale o domestica e assistiamo i partner o ex partner, specialmente quando i figli invece mantengono contatti con il genitore detenuto».

Anche i parenti spesso seguono un pattern demografico: sono prevalentemente madri e coniugi, in larga parte si tratta di donne. «Maria», la detenuta incontrata nell’articolo precedente, descrive così le condizioni nel carcere di alta sicurezza: «Ritengo ci sia un grado molto basso di contatto con i parenti più stretti, specialmente nelle carceri ad alta sicurezza». A suo avviso, il ricorso all’alta sicurezza è eccessivo: «Il contenuto della detenzione è più importante della sua lunghezza o delle condizioni. Ci sono casi di persone in carcere per reati non violenti e che non hanno problemi di abusi, che finiscono in un carcere di alta sicurezza solo perché hanno una detenzione più lunga e non ci sono risorse sufficienti». Gli incontri possono avvenire sia di persona che a livello digitale, una soluzione introdotta durante le restrizioni per la pandemia e che ha continuato ad esistere anche dopo.

Molte informazioni sul carcere emergono dalle voci che si alternano a Røverradio, il programma realizzato dai detenuti del carcere centrale di Oslo e dalle detenute del carcere femminile di Bredtveit. È indubbiamente una maniera creativa per passare il tempo e condividere informazioni con un pubblico che, altrimenti, non avrebbe motivo di entrare in contatto con numerosi aspetti del carcere. C’è chi racconta, ironicamente, della volta più ridicola in cui è stato arrestato, o chi fornisce consigli agli ascoltatori per evitare i furti in auto o in appartamento, ma una delle costanti è la discussione sulla tossicodipendenza e sulle possibili misure per limitarla o combatterla. I contenuti sono originali e, con il passare delle puntate, emerge anche l’esperienza con cui i detenuti riescono a gestire i tempi radiofonici o sottoporre le domande agli ospiti, talvolta celebri. Della permanenza in carcere raccontano questo: «La cosa più importante è lavorare su se stessi e mostrare spirito di iniziativa, soprattutto se si pensa che questo è un posto dove tutti i giorni qualcuno ti serve il cibo e la tua cella viene pulita». 

Poi c’è il rapporto con le guardie. «Nel sistema correzionale norvegese non ci sono poliziotti, a differenza di altri paesi europei», spiega la criminologa Vanja Lundgren Sørli. «I funzionari del carcere sono inquadrati come una professione a parte rispetto alla polizia, anche se entrambi sono alle dipendenze del Ministero della Giustizia». La formazione è essenziale: «Sia per la polizia che per i funzionari delle carceri, riteniamo che oggi il percorso di formazione biennale sia troppo breve, dovrebbe essere prevista almeno una laurea triennale per caricarsi di questa complessa responsabilità nei confronti della società». Di quali competenze c’è bisogno? «È noto che i detenuti siano caratterizzati da dipendenze e/o da una bassa scolarizzazione e altri problemi di natura psichiatrica, per questo sono necessarie molte competenze per un compito così complesso».

Secondo Bente Grambo, le condizioni sono cambiate in positivo, ma ci sono ancora margini di miglioramento: «In generale è successo molto durante gli ultimi quindici anni. Ad esempio siamo riusciti a influire a livello politico per permettere ai minori di quattordici anni di poter visitare i genitori in carcere, prima non potevano. Siamo parte di un’organizzazione europea e rispetto ad altri paesi possiamo dire che le condizioni siano buone, però qui ci sono ancora molte differenze fra un carcere e l’altro». Si verificano violenze? «Rispetto ad altri paesi, gli episodi di violenza avvengono in misura molto ridotta. Può succedere, certo, ma i funzionari vengono formati proprio per limitare la violenza sia fra i detenuti e da parte dei funzionari stessi». Questo aspetto viene confermato anche da Lundgren Sørli: «I funzionari possono utilizzare la forza fisica in caso di necessità, ma deve essere circostanziata e non deve mai eccedere lo stretto necessario».

I problemi che emergono durante la detenzione, variano a seconda della sua natura: «Chi è ai domiciliari, deve fare rientro normalmente alle 18 e indossa un braccialetto elettronico alla caviglia per tracciare i movimenti. In questo caso, ci possono essere situazioni domestiche non adatte, ad esempio per chi abita in un dormitorio e ha uno spazio molto ristretto in cui vivere», spiega la criminologa, che poi si sofferma sull’isolamento, talvolta anche volontario, dei detenuti: «In alcuni casi sono le misure previste dall’Istituto Correzionale a richiedere l’isolamento per brevi periodi, anche perché si tratta di un elemento di particolare stress per i detenuti, altri decidono loro stessi di non voler condividere lo spazio con altri e uscire, cosa che è tra l’altro prevista per minimo due ore al giorno, altrimenti viene classificata come tortura».

«Maria», che attualmente si può spostare fra la casa di transizione e il lavoro, spiega così gli effetti dell’isolamento: «A volte diamo scontate troppe cose prima di entrare in un carcere, ad esempio la possibilità di comunicare con un telefono o tramite internet. Quando sono entrata, anche solo per riuscire a richiedere la revisione del mio processo e accedere ai documenti a mio carico, ho dovuto aspettare ottanta giorni». Racconta poi di un episodio che ha particolarmente traumatizzato le detenute del carcere di Bredtveit: lo scorso anno, una ragazza si è tolta la vita davanti a loro e la polizia ha disposto che le detenute fossero confinate nelle proprie celle durante i rilievi, durati diverse ore, in un contesto che altrimenti avrebbe richiesto assistenza psicologica o spirituale.

 Non essendo previsto l’ergastolo, per tutti i detenuti arriva il momento di uscire, fatta eccezione per quei casi in cui, ogni cinque anni, può essere estesa la detenzione nel caso il condannato dovesse ancora rappresentare una minaccia per l’esterno. E quando si aprono le porte del carcere, inizia un altro capitolo, quello che la prossima settimana concluderà questo viaggio.

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