Due furgoni passano il confine fra la Svezia e la Norvegia attraverso un valico secondario a ridosso del Lago Varald, nelle ore serali di un sabato di fine autunno, quando le temperature sono già abbondantemente sotto lo zero e non ci sono particolari eventi che giustificano un tale viaggio. Se ne accorgono le guardie doganali di stanza a Kongsvinger, il primo centro urbano di una certa importanza dopo il confine, dopo aver notato il passaggio dei veicoli, entrambi con targa svedese, attraverso le telecamere di sorveglianza. I due furgoni vengono raggiunti appena dopo il centro cittadino, e quando la polizia chiede spiegazioni agli autisti, questi non riescono a giustificare il motivo del loro tragitto. Gli agenti ispezionano i due mezzi e trovano al loro interno oltre tre quintali di sostanze stupefacenti.
Inizia da qui il percorso della seconda puntata di questa serie di articoli dedicata al sistema di detenzione norvegese, volta a comprendere se e come una detenzione più umana contribuisca a ridurre il tasso di recidiva e, di conseguenza, il crimine all’interno della società e le tensioni che questo comporta.
I reati collegati al possesso, alla vendita e al traffico di droga hanno a lungo caratterizzato il principale capo di imputazione per i detenuti nelle carceri norvegesi, anche se dalla metà dello scorso decennio il trend ha subito un rallentamento e, oggi, la causa principale di detenzione sono aggressione e violenza aggravata. Nel 2022 la percentuale di detenuti per reati collegati a sostanze stupefacenti era comunque il ventisette per cento del totale. Bente Grambo lavora come consulente presso l’Associazione per i Familiari dei Detenuti e individua un altro preoccupante trend in aumento: «Noi non lavoriamo direttamente con i detenuti, ma notiamo che le famiglie spesso si ritrovano a gestire reati molto gravi, spesso si parla di violenza, omicidi oppure reati di natura sessuale, particolarmente in crescita in Norvegia ora», spiega Grambo. I reati a sfondo sessuale, avvengono «sia con atti di violenza fisica, che attraverso traffici online»
«In Norvegia abbiamo un sistema che include carceri di alta sicurezza costruiti durante gli ultimi dieci anni, e altri che prevedono una detenzione aperta e in condizioni che risultano positive in particolar modo se confrontate con altri paesi» spiega Paul Larsson, criminologo e professore presso l’Accademia Norvegese di Polizia. «Ci sono, ad esempio, forme di isolamento temporaneo per ragioni di sicurezza. Si da più peso alla riabilitazione e al concetto che i condannati debbano ritornare nella società».
«La criminalità è cambiata nel corso degli ultimi vent’anni», racconta Larsson. «In generale è calata, così come è calata la delinquenza giovanile, con l’eccezione degli ultimi due anni durante i quali abbiamo riscontrato una risalita». A cosa è dovuto questo aumento di casi legati ai giovani? «Nessuno ha una risposta adeguata, chi ha investigato sul problema ha individuato un gruppo di maschi, generalmente marginalizzati e particolarmente giovani, c’è stato un aumento dei reati compiuti fra i quattordici e i sedici anni, la classica immagine di chi proviene da un contesto privo di risorse economiche e senza scolarizzazione». Che origine hanno queste persone? «Spesso provengono da famiglie di immigrati».
La natura dei reati è quella legata alla piccola delinquenza: «In generale si tratta di reati contro il patrimonio, come rapina o estorsione. Stiamo comunque parlando di numeri generalmente bassi rispetto alla criminalità totale e di un gruppo di persone molto ridotto».
La giovane età di questi ragazzi, spesso, comporta che i loro reati non siano puniti con il carcere, una misura che è stata spesso criticata a livello politico. «Questi giovani non andranno in carcere, si tratta di problemi che devono essere gestiti da personale sociale e sanitario», chiarisce il criminologo. «Le conseguenze di incarcerare persone così giovani sarebbero catastrofiche, ne uscirebbero traumatizzati e con il rischio di stringere amicizie poco raccomandabili durante la detenzione. Verrebbero stigmatizzati e non sono mentalmente in grado di sopportarlo».
Tornando al reato per il quale il personaggio immaginario del nostro racconto viene arrestato, il traffico di sostanze stupefacenti, Larsson spiega così la prevalenza di questo capo di imputazione e il motivo per cui, con il tempo, sia andato in calo: «In Norvegia abbiamo ancora una legge particolarmente punitiva: c’è stato un dibattito per una possibile riforma dell’uso e del possesso di stupefacenti, ma il tentativo è fallito e dopo un iniziale alleggerimento, ora sembra che di nuovo si stia per tornare a restrizioni piuttosto dure e ci vorrà tempo prima di vedere dei cambiamenti sostanziali. E’ come se non si fosse imparato dalle lezioni precedenti”. Se una riforma può contribuire a limitare la presenza in carcere di persone con problemi di droga, che effetti ha portato l’attuale giurisdizione su chi gestisce questi traffici? «In un certo senso, ha già influenzato l’operatività del sistema penale, anche se in molti casi si tratta di detenuti stranieri. Scontano pene molto lunghe, spesso in strutture di alta sicurezza, in questo senso possiamo vedere come il modello norvegese non sia applicato per questo tipo di reati».
«Anche in Italia la criminalità è in lento ma costante calo da molti anni», afferma Alessio Scandurra, dell’Osservatorio sulle condizioni di detenzione del gruppo Antigone. «Ed anche in Italia il traffico di stupefacenti è il principale motore della detenzione. Al 31 dicembre 2023, la popolazione carceraria era di 60.166 persone, delle quali 12.946 detenute per produzione, traffico e detenzione di stupefacenti (art. 73 del TU sulle Droghe). Altre 6.575 persone erano detenute anche per associazione finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti (art. 74), mentre 994 erano detenute esclusivamente per l’art. 74. Complessivamente, queste persone costituivano il 34,1 per cento del totale della popolazione carceraria – quasi il doppio della media europea».
Attraverso le voci di Røverradio, in onda da diversi anni anche sulle frequenze della radio di stato NRK, è facile, invece, comprendere le motivazioni di chi ha intrapreso l’attività criminale. Il primo a raccontarlo (in qualità di ospite nella prima puntata assoluta del programma), è anche un volto piuttosto noto in Norvegia, il conduttore radiofonico Trond Eriksen, che in passato ha trascorso complessivamente dodici anni in carcere: «Ho lasciato la scuola molto presto, sono stato subito coinvolto in una rete di attività criminali e con il tempo sono diventato tossicodipendente». La tossicodipendenza è una costante nei racconti di chi passa dai microfoni del programma: Lorena e Sandy, dal carcere femminile di Bredtveit, raccontano di aver avuto background diversi, una proveniente da una buona famiglia e l’altra con un’infanzia difficile: quest’ultima, in particolare, ha finito, neanche adolescente, per frequentare persone che avevano anche due o tre volte la sua età, assieme alle quali poteva fare uso di droga.
Mikael lavora a contatto con i giovani in difficoltà sulla base del suo trascorso: «Sentivo il bisogno di appartenere a un gruppo che mi desse importanza, dato che da piccolo ero spesso ridicolizzato e avevo problemi a casa», racconta l’uomo, oggi quarantenne. «Ho avuto alcune disgrazie nella mia vita e mi sono rifugiato nella tossicodipendenza e nell’alcolismo, la prima volta che mi sono sentito importante è stato quando sono entrato in una gang»
Il percorso ipotetico di un criminale, ora che è stato arrestato con l’accusa di traffico di droga, deve affrontare prima lo scoglio del processo, poi quello della detenzione. Qui entra in scena Vanja Lundgren Sørli, che sarà centrale nel comprendere la natura della detenzione. Nel suo ufficio di Lillestrøm, dove coordina le attività dell’Accademia per gli Studi Correzionali, ci spiega come vengono affrontati questi crimini dalla polizia e dalle istituzioni: «Quando parliamo di organizzazioni criminali, credo che la polizia abbia poche risorse, sebbene la legge norvegese configuri questo reato alla stessa maniera del resto d’Europa», spiega la criminologa. «Gli inquirenti concentrano maggiormente il proprio lavoro più i commerci internazionali, mentre la polizia in parte è costretta a chiudere alcune indagini e quello che sappiamo è che, per esempio, del traffico di esseri umani vediamo solamente la punta dell’iceberg, dato che questo spesso include anche traffico di armi e stupefacenti. E’ così complesso e richiede così tante risorse, che spesso viene messo da parte e molta criminalità organizzata non è affrontata adeguatamente».
In attesa del processo, si aprono le porte del carcere. «Prima di entrare qui, per oltre cinquant’anni, ero una donna normalissima, ho avuto diversi lavori nel corso della mia vita, ero incensurata», così si presenta e “Maria”, alla quale, per salvaguardare la privacy, è stato assegnato un nome di fantasia. Maria è speranzosamente in attesa della revisione del processo a suo carico e attualmente risiede presso una struttura aperta, che le consente di uscire per recarsi al lavoro.