Jonathan Callan è un raffinato artista della parola. Nato a Manchester nel 1961, ha studiato al Goldsmiths College e alla Slade School of Fine Art. Da sempre ha vissuto l’arte come missione e come unico modo di essere. A partire dalla fine degli anni Novanta, il suo lavoro viene sempre più riconosciuto con mostre e opere presenti in collezioni pubbliche e private di tutto il mondo: da New York alla Corea del Sud, passando per Parigi e non solo.
Al di là della lievità di tutti i suoi lavori, la sua pratica artistica è intrisa di una riflessione quasi filosofica sulla materialità e sulla limitazione del linguaggio nella comunicazione dell’esperienza. Così anche i suoi noti libri d’artista non nascono come illustrazione, quanto piuttosto per esplorare la relazione tra forma e contenuto, sempre in modo non convenzionale. Callan finisce così per esplorare il concetto di ignoranza nel contesto dell’accumulo e della trasmissione dell’informazione, mettendo in discussione la nostra comprensione del mondo e il ruolo dell’arte nella sua interpretazione.
L’artista schietto e anticonvenzionale, noto per la sua autodefinizione provocatoria – «sono interessato a polvere, sporcizia, polvere» –, si distingue per il suo approccio ironico e talvolta caustico nei confronti della sua stessa opera. Quella celebre dichiarazione rivela una profonda fascinazione per la materialità e una volontà di esplorare ciò che giace al di là delle apparenze superficiali.
Callan si è sempre distinto per la sua franchezza nel parlare di sé e del suo lavoro, mettendo in discussione il significato dell’arte stessa. Nonostante la sua autoironia e il suo scetticismo sul ruolo dell’artista come “autorità” sul proprio lavoro, siamo riusciti a ottenere da lui un racconto intimo sulle sue opere più famose, per una narrazione che spazia dall’adolescenza vissuta a Manchester fino alla recente e traumatica progressiva perdita dell’udito.
Attraverso le sue dichiarazioni, emergono le sfide e le trasformazioni che ha affrontato lungo il percorso artistico, offrendo uno sguardo penetrante sulla complessità della sua visione artistica e sulle sue motivazioni più profonde. In questo dialogo aperto e sincero, l’artista si confronta con il proprio lavoro e con il mondo che lo circonda, invitandoci a riflettere sul potere e sulle limitazioni dell’arte nel comunicare l’ineffabile e nell’affrontare le sfide della vita.
Come sei diventato un artista?
«Fin da quando ero bambino ho sempre amato creare cose. Però, ho capito di voler essere un artista durante l’adolescenza. Lo sapevo e lo volevo, benché avessi ben presente che sarebbe stato estremamente difficile, poiché la maggior parte degli artisti non riesce a vivere del proprio lavoro; di solito necessitano di un reddito supplementare. Così, dal momento in cui ho lasciato il college nel 1984 fino al 1998, ho svolto altri lavori. Ho lavorato come muratore e come insegnante prima di poter vivere come artista e ti stupirà ma il lavoro come muratore ha influenzato la mia arte molto più dell’insegnamento».
Sei perciò un “homo faber”?
«Mi considero un creatore di oggetti e immagini. Tutti gli artisti che ammiravo da giovane creavano oggetti e installazioni, a volte immagini, a volte film e fotografie, a volte performance. Non mi piace particolarmente l’idea di essere considerato uno scultore, allo stesso modo in cui gli artisti che più amo immagino non si incasellassero in alcun altro modo se non come artista: penso ai miei maestri Ann Hamilton, Cornelia Parker, Janis Kounellis, Gordon Matta-Clark, Richard Long, Walter de Maria, Louise Bourgeois e Hanne Darboven. Semplicemente un’artista “crea” cose nel modo in cui sente di doverlo fare. È poi importante ricordare che l’educazione artistica nel Regno Unito non è incentrata sull’artigianato o sulle competenze tecniche. Non ho imparato alcuna tecnica quando studiavo arte e credo che la radice dell’arte non sia nella mano, ma nella mente. Ogni creazione è una forma di pensiero».
Trasversale a tutta la tua ricerca rimane però l’interesse verso la scrittura e il linguaggio, sbaglio?
«Sono sempre stato interessato alla natura del linguaggio e delle informazioni. In effetti da giovane accarezzai anche l’idea di cambiare i miei studi universitari e studiare filosofia, poiché all’epoca leggevo molto sulla filosofia linguistica anglo-americana. Compresi, però, che la mia comprensione della logica non fosse abbastanza forte per un’indagine seria in quella direzione. Sono ancora oggi molto interessato agli aspetti della vita e dell’esperienza in cui il linguaggio fallisce, o è un impedimento».
La lingua può quindi essere una barriera: questo aspetto ha influenzato la tua ricerca?
«Realizzai molto presto che la cultura britannica non è, storicamente parlando, una cultura visiva. È principalmente una cultura letteraria: siamo una nazione di poeti, filosofi, drammaturghi e autori. Da tale considerazione scaturiva un bisogno a creare oggetti e installazioni in cui avrei dato risposte molto fisiche alla natura delle informazioni, principalmente tratte dai libri. I libri sono una risorsa favolosa nel senso che le persone, a volte molte persone, hanno cercato, preparato e presentato una particolare visione del mondo. Dal prosaico e umile al grandioso. Mi piace prendere queste idee già esistenti e manipolarle. La varietà nel mio lavoro è forse una risposta alla varietà incontrata in tutti gli aspetti della pubblicazione».
Dal momento che dici che gli artisti sono «le autorità meno affidabili sul significato del proprio lavoro», ti sfido a raccontarci cinque opere che per me hanno fatto la differenza nella tua carriera. Partiamo da una delle più recenti: Cerco di fuggire dalla malattia dell’amore (I attempt from Love’s sickness to fly).
«Tutti i nuovi lavori che utilizzano la notazione musicale stampata sono in parte una risposta alla mia progressiva sordità, che ha influenzato il mio lavoro particolarmente negli ultimi tre o quattro anni. La mia perdita uditiva cominciata nel 2010 è progressiva e peggiora un po’ ogni anno. Oggi mi interessa perciò cercare di esprimere analogie visive tra il suono e la musica. Questo è un pezzo in cui la notazione è stata completamente sovrapposta con piccole pietre. Quasi come un patio, o il tipo di superfici, chiamate “intonaco a sassolini”, usate per rivestire l’esterno degli edifici. Ho realizzato molti lavori nel corso degli anni, sia grandi che piccoli, in cui allo spettatore è attivamente negato l’ingresso a un’immagine, a un oggetto o a uno spazio».
Tra questi ultimi lavori c’è anche La mia copia di Power, Corruption and Lies.
«Prima di diventare sordo, la musica era una parte centrale della mia vita. La band che ha realizzato l’album rappresentato in questo pezzo, New Order, era una parte importante della mia vita quotidiana quando ero giovane. Sono andato a sentirli in numerose occasioni a Manchester, prima di trasferirmi a Londra all’età di diciannove anni. Questo lavoro è stato realizzato facendo girare la copertina dell’album sul muro dello studio e scattando una lunga esposizione mentre si muoveva. L’immagine risultante sembrava dire qualcosa riguardo alla copertina stessa, conservava la stessa colorazione, la natura di un artefatto circolare in vinile e la mia sordità, essendo ora in grado solo di guardare e non ascoltare».
Per Facebook hai realizzato Un milione e mezzo di pagine di contenuto: ce ne parli?
«È stato un lavoro commissionato da Facebook quando hanno trasferito la loro sede di Londra a Rathbone Place nel 2017. Non è stata un’esperienza del tutto felice. Hanno cambiato idea sul lavoro quattro volte e alla fine ho considerato l’intero progetto un po’ come una mossa commerciale da cui ero contento di sbarazzarmi. Il titolo è arrivato verso la fine del progetto. Il modello di business di tutte le piattaforme di social media è quello in cui l’utente è incentivato a investire in un coinvolgimento perpetuo. Solo così l’azienda può monetizzare i dati, vendendoli essenzialmente agli inserzionisti e ad altre aziende. “Contenuto” ora significa qualcosa di completamente diverso rispetto a quanto rappresentava solo vent’anni fa. L’opera è un’estensione di un processo in cui i libri sono considerati principalmente per le loro proprietà come materiale di base, come l’argilla. Volevo la libertà di manipolarli nello stesso modo in cui potrei manipolare terra o gesso».
Sempre incentrato sui social network c’è il tuo lavoro Romanticismo.
«C’è un intero mondo che dibatte sui capelli delle persone: Youtube e TikTok sono invasi da video di passeggeri ripresi dai sedili posteriori. La cosa che mi sorprende sono i video sulle persone che fanno ricorso a dolorosi impianti di capelli. Nel mio lavoro ho voluto sublimare e sorridere su questo mondo: alle note sono ancorate dei fili, spinti nella carta in modo molto simile a quelli usati nella chirurgia dei capelli. Ho così voluto dare forma a una chioma indisciplinata, suggerendo che il sedile delle emozioni potrebbe stare considerevolmente più in basso rispetto sia alla testa sia al cuore».
Il tuo approccio a tratti caustico con i social network ti porta a riflettere sul problema della comunicazione tra le persone, sto pensando a un lavoro geniale come Compressione dell’idiota.
«Il linguaggio è tutto, nel bene e nel male. Questo pezzo è stato realizzato per la prima volta nel 2009. Ho avuto la possibilità di mostrarlo nuovamente in un formato diverso nel 2016. Il linguaggio sta in relazione all’esperienza allo stesso modo in cui i messaggi di testo stanno in relazione alla letteratura. Entrambi sono una forma di compressione. Entrambi cercano di codificare e ridurre la natura multi-sfaccettata della realtà in una forma più semplice. Ho tagliato gli angoli dai libri, lungo il dorso. I libri sono diventati versioni ridotte di se stessi. Potevano essere presi e letti ma contenevano solo una frazione delle informazioni che avevano una volta. Ho pensato che questa forma brutale di riduzione fosse analoga al modo in cui i messaggi di testo riducono il linguaggio parlato e scritto».