Acqua, fuoco, terra, aria. Sono gli elementi che compongono il Telamone simbolo di Agrigento, Capitale italiana della Cultura 2025, e sono gli elementi che caratterizzano ogni territorio, la Sicilia più di ogni altro, vista la sua eterogeneità che ci porta dal nero brullo dell’Etna e del suo fuoco ardente fino al mare della costa Mediterranea. Lì batte il cuore di Colapesce, che quel fuoco fa ardere dentro di sé e che con la stessa potenza di una eruzione riesce, ancora per poco, a sorreggere l’intera Sicilia.
Noi cosa facciamo? «Dimentichiamo che noi stessi siamo terra», diceva Papa Francesco nella sua enciclica Laudato si’. «Il nostro stesso corpo è costituito dagli elementi del pianeta, la sua aria è quella che ci dà il respiro e la sua acqua ci vivifica e ristora» continuava lo scritto. E se anche il Papa rivolge lo sguardo all’ambiente, noi ci giriamo dall’altra parte credendo sempre e ancora che quello dell’ambiente sia l’ultimo dei problemi di cui dobbiamo occuparci? Perché da soli, tanto, non riusciamo a risolvere questo problema che sembra ormai così radicato dentro noi da averci fatto l’abitudine. Sin dai banchi di scuola siamo più spaventati per il mistero che evoca la lezione sul “buco dell’ozono” che per il problema stesso: la studiamo dimenticandola già il giorno successivo, senza capire che invece è proprio da quei banchi che bisogna cominciare a comprendere dell’importanza di un albero piantato. E invece cosa abbiamo fatto nella nostra terra, in quella Sicilia diventata così pesante che Colapesce non riesce più a sostenerla?
Abbiamo sradicato alberi per mettere cemento in paesi che un tempo ospitavano il quadruplo degli abitanti che ospitano adesso, dove l’incompiuto è diventato stile architettonico. La foto è quella che immaginiamo: conci di giallo tufo che irradiano le strade nelle stagioni sempre più calde, ferri aguzzi che fanno capolino ormai arrugginiti nell’ultimo piano dell’abitazione, pilastri di cemento grigio come il futuro dello stesso palazzo che non verrà mai completato, e il verde della natura che si riprende quello che vuole, quando vuole, che emerge all’interno di quel posto, oggi piccionaia in disuso.
Quel futuro che si immaginava per quell’immobile non si compirà, i paesi sono scatoloni quasi vuoti, composti da stazioni ormai senza edicole in cui pochi treni passano e dove pure quei quartieri nati per chi lavorava in stazione, ormai sentono solo il rumore del silenzio, di grilli che cantano e di uccelli che riempiono gli spazi vuoti, rimpiangendo gli alberi che c’erano prima. «Sorella terra protesta per il male che le provochiamo» scriveva ancora Papa Francesco e, che si sia credenti o meno, non è un errore. Se quella terra potesse risponderci ci darebbe uno schiaffo. Ma noi stessi siamo terra e se quegli schiaffi non partono dalle nostre mani non lo capiremo dove stiamo andando. Abbiamo passato il punto di non ritorno. Noi quella terra l’abbiamo divisa in stati, regioni e comuni e oggi per quei confini creati dall’uomo il problema della distruzione è quello che sta in fondo alla lista dei pensieri, degli obiettivi, dei traguardi da raggiungere. Non se ne parla, mentre le città muoiono e gli enti sanitari ci dicono «è tutto nella norma».
Dipende da Noi, ma oggi, se la vita è fatta di colori noi continuiamo a preferire il grigio del cemento al verde degli alberi, continuiamo a vedere il nero del petrolio dei vari impianti sparsi nei punti dell’isola (che ci regalano anche il mercurio) piuttosto che il blu di un mare che sarebbe stupendo. Scegliamo questo senza pensare al futuro? Quel futuro che noi abbiamo cercato di costruire, letteralmente, attraverso case per i nostri figli che adesso odiano quei posti. A Gela i ragazzi scappano per non ammalarsi, perché hanno paura che rimanendo lì non possano avere figli (anche se l’impianto è ormai stato convertito) o che se li avranno in futuro magari subiranno qualche problema di salute, qualche malformazione.
Ma il lavoro? È sempre il solito problema, il “dilemma Ilva”: a Taranto metà paese muore di tumore e protesta per la chiusura dell’impianto, l’altra metà in quell’impianto ci lavora e protesta a ogni avvisaglia di chiusura. Il lavoro, sì ma in cambio di cosa? La nostra libertà di vivere può essere barattata con un pezzo della nostra salute, della salute del nostro ambiente, di quella terra che tanto ci ha dato? Il “dilemma Ilva” è lo stesso che si vive a Gela, si vive ad Augusta, nel quadrilatero della morte, a Milazzo, nella terra di Mordor, come la chiamano alcuni ragazzi del posto, ricordando quella celebre del Signore degli Anelli, un luogo tenebroso e sempre coperto da nuvole grigie.
«Lo faccio per i miei figli», dicono, ma lo stesso figlio di certo non avrebbe voluto nascere senza un braccio, perché un arto non lo ripaga nessuno. Quel figlio, da una terra con così tanti problemi, andrà via, e rimane poi il dubbio che forse in un’altra vita, con altre scelte, quel braccio avrebbe potuto averlo con sé. Oggi restano invece le lacrime, 60 anni dopo, di padri e madri che hanno lavorato in impianti che hanno portato lavoro e tumore, lavoro e morte.
Rimangono solo i cocci di un Eldorado che non c’è mai stato se non per chi quegli impianti li ha messi. Le case dei dipendenti rimangono chiuse, le villette dei dirigenti vengono affittate ai turisti per l’estate, i figli sono partiti e il lungomare rimane vuoto. Anche a Gela, dove Salvatore Quasimodo descriveva la sabbia «colore della paglia», si chiedono la stessa cosa: ne è valsa la pena? Quasimodo aveva «molti sogni nei pugni, stretti nel petto» e sono gli stessi sogni dei giovani che da quella terra non vogliono andare via. Ma anche negli altri posti, luoghi di mancate bonifiche, luoghi abbandonati che un centro erano cuore del lavoro. Li vediamo andando via nei nostri viaggi, partendo dalle stazioni sperdute che sono nate con quei luoghi ormai abitati dai fantasmi di quello che poteva essere, seppelliti dalla burocrazia dei “vorrei ma non posso”, “vorrei ma non ci sono soldi”.
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C’è ancora speranza? Questo dipende da noi, da quello che facciamo, da quando, davanti a un bivio scegliamo la via del sacrificio della vita umana, dell’ambiente, per il lavoro. Dallo scegliere di mettere in piedi una nuova casa in un terreno che aveva piantagioni di ulivi, quando la casa accanto è vuota come molte all’interno dello stesso paese, quando scegliamo che la via più facile sia quella che sacrifica tutto, piuttosto che quella che ci ridarà un futuro.
Abbiamo sempre voltato le spalle dall’altra parte: solo nel 2015 dopo decenni, anche secoli, di inquinamento, si è deciso di riformare la Legge sulla tutela dell’ambiente, introducendo reati penali che prima venivano puniti solo con una multa. Come se i soldi potessero rendere giustizia a pesci morti, ad alberi ingialliti, ad acque color petrolio e agli stessi danni che negli anni poi tutto questo provoca all’uomo. L’inquinamento ambientale era considerata prima una sciocchezza, che la legge metteva alla pari con reati di falsificazione di firma: una multa e ci si lavava la coscienza. Solo nel 2015, quando ormai era troppo tardi, la legge 68/2015 riconosce l’inquinamento ambientale come qualcosa di più grave, con il carcere che può arrivare anche a vent’anni se con l’inquinamento si uccidono persone, cosa che avviene regolarmente.
Ma oggi chi paga per questo? Nei casi più eclatanti si procede ma spesso arriva la prescrizione. Per un altro reato, quello di omessa bonifica, sembra non pagare mai nessuno, nonostante le conseguenze siano visibili. Negli anni 60/70 la Sicilia è stata costellata di impianti di lavorazione di amianto, di fabbriche mastodontiche poi abbandonate, di poli petrolchimici che operavano come se il mercurio in mare fosse il miglior nutrimento dei pesci e solo nel 2015 si capisce che in tutto questo c’è qualcosa di sbagliato, che forse l’ambiente che ci dà la vita, che ci dà da vivere, dobbiamo preservarlo, perché non è nostro. Ce ne accorgiamo soltanto quando piangiamo a ogni alluvione, a ogni valanga, a ogni incendio, ma siamo noi a scegliere questo.
Ce ne dimentichiamo subito dopo i servizi televisivi che ci avevano intristito, come se cambiando canale cambia la storia. Non è così. Se il 2015 sembrava già una data fuori tempo massimo, è ancor più singolare che la parola ambiente fino al 2022 non fosse inserita nella Costituzione, che preservava il paesaggio ma non l’ambiente. «La Repubblica tutela l’ambiente, la biodiversità e gli ecosistemi, anche nell’interesse delle future generazioni» recita il nuovo comma dell’articolo 9 della Costituzione che introduce per la prima volta la parola ambiente nel documento del 1946, in un momento in cui tutto il mondo si sta interrogando cosa rimarrà di questa terra, se ormai non sia troppo tardi per fare un passo indietro se quelle nuove generazioni che abbiamo citato nella modifica, ci saranno o saranno solo un’utopia.
Ecco le future generazioni: facciamolo almeno per loro, in uno spirito antico che ci ricorda che abbiamo ricevuto il mondo in prestito dai nostri figli, facciamo in modo che possano viverci. Lasciamo case che non useranno, ma non ci preoccupiamo di lasciare un ambiente sano che gli permetta di vivere, ripiantiamo gli stessi alberi che abbiamo tagliato per colate di cemento rimaste senza intonaco perché mai più completate, riscopriamo la bellezza della natura, dell’agricoltura, l’essenza del mondo che ci circonda. Quindi mettiamoci l’elmetto di Colapesce e aiutiamolo a difendere i nostri elementi: acqua, terra, fuoco e aria.
Tratto da “Se Colapesce si stancasse” (Navarra Editore), di Alan David Scifo, pp.126, 12€