Disco sinapsiAlla ricerca del mistero magico che connette il cervello con la musica

«Spesso le neuroscienze si concentrano sull’Amigdala, una sorta di antico rubinetto che ci aiuta a processare gli stimoli emozionali. Ci fa percepire quando una canzone è triste o allegra. Ma c’è ancora tanto su sui indagare», dice Laura Ferreri, ricercatrice del dipartimento di Scienze del sistema nervoso e del comportamento dell’Università di Pavia

Illustrazione di Lucy Jones

A Laura Ferreri, ricercatrice del dipartimento di Scienze del sistema nervoso e del comportamento dell’Università di Pavia, si potrebbero fare molte interviste. Una perché è una 35enne che ha deciso di tornare in Italia, lasciando una cattedra a Lione. Un’altra perché è un’esperta di musica elettronica che collabora con i festival più importanti come il Sonar di Barcellona. Scegliamo però di farle domande sul suo lato più scientifico, anche se le sue conferenze con l’orchestra sinfonica di Milano sono come uno spettacolo, durante il quale il pubblico è coinvolto alla scoperta di quel mistero magico che connette il cervello con la musica.

Che cosa succede alle sinapsi quando ascoltiamo la musica, o suoni e ritmi? 
Quando siamo esposti a un brano, anche senza saperlo chiediamo al cervello di compiere molti sforzi cognitivi. Attiviamo le aree della percezione, come la corteccia uditiva ed è solo l’inizio. Il cervello si accende e una delle prime cose che facciamo, è muovere le mani per tamburellare su qualche superficie, tenendo il tempo.

Poi arriva il momento dei piedi, no?
È su di loro che si innesca l’impulso a ballare. Ma anche senza l’abbandono liberatorio tipico della danza, usiamo spesso altre parti del corpo che ci fanno sincronizzare con i suoni. Le nostre oscillazioni interne, quelle del nostro cervello, sono in grado di comprendere e prevedere le oscillazioni esterne emanate da un ritmo musicale. 

A volte però ci piace ascoltare in cuffia, goderci la musica da soli.
E allora accendiamo altre aree sensibili, dove nascono le emozioni. Perché forse quel brano voleva proprio arrivare lì, a trasmetterci qualcosa che volevamo sentire. A occuparsene non è soltanto una zona del cervello. C’è un network di “risvegli”. Spesso le neuroscienze si concentrano sull’Amigdala, una sorta di antico rubinetto che ci aiuta a processare gli stimoli emozionali. Ci fa percepire quando una canzone è triste o allegra.

Il fatto che sia antica rende l’Amigdala piena di segreti?
C’è tanto su cui indagare. Molto e si è scoperto che le persone con malattie neurologiche gravi spesso riescono riconoscere la musica, anche se non sono in grado di dire se è triste o allegra.

Sentono le emozioni ma non il loro sapore?
In casi di Alzheimer, epilessia o ictus si è visto che il ricordo musicale rimane, associato però a un’incapacità di definire le emozioni che la memoria genera.

Perché proviamo piacere ascoltando musica o ballandoci sopra?
Possiamo sentire piacere per un brano allegro o per uno che ci fa disperare. I noti “brividi lungo la schiena” sono legati all’attivazione del sistema dopaminergico che decide di elargire ricompense. È legato alla sopravvivenza. Si attiva anche se gustiamo un buon cibo o riceviamo denaro.

Sì ma la musica o l’arte non servono alla sopravvivenza.
È una prerogativa degli umani provare piacere in presenza di stimoli astratti di ricompensa, quindi sociali o estetici. Dipende dal fatto che abbiamo un linguaggio e quando ascoltiamo un brano il cervello reagisce come se qualcuno ci parlasse. Vogliamo capire che cosa sta dicendo.

Quanta complessità dietro una canzone che amiamo.
E non è finita. Oltre a tutte le aree che interagiscono, alla fine se ne attiva una essenziale, quella della memoria. Una volta che la musica è arrivata e l’abbiamo riconosciuta, ecco farsi vivo il passato: persone, parole, eventi della vita. In questo caso la musica utilizza lo stesso strumento che usiamo per organizzare il quotidiano, l’ippocampo. Una struttura cerebrale a forma di cavalluccio marino che sa gestire la memoria a breve e a lungo termine, quella spaziale e l’orientamento.

Se la musica aiuta la memoria perché i professori non vogliono studenti in cuffia?
Ci fanno imparare le filastrocche per i mesi dell’anno, frasi ripetitive, scandite. Nelle ricerche abbiamo visto che quando chiediamo alle persone di memorizzare delle informazioni con la musica sono facilitate. È naturale che se la usiamo come supporto ci aiuta. Se invece porta altrove l’attenzione, diventa un’interferenza. E i prof non amano le distrazioni, no?

La musica e il ritmo sono stimoli diversi?
Lo stimolo ritmico è la premessa a un’azione, noi possiamo immaginare di prepararci ad agire se riusciamo a prevedere uno schema ritmico di quello che ci accade.

È un meccanismo che riguarda soltanto l’uomo o anche gli animali?
Mistero in fase di svelamento. Si pensava che la musica fosse qualcosa di unicamente umano, adesso sappiamo che ci sono comportamenti musicali anche in alcuni animali. C’è un pappagallo, il Cacatua Galerita, in grado di sincronizzarsi con la musica. Uno è anche diventato una star di Youtube, si chiama Snowball. 

Invece i primati, come gli scimpanzé?
Riescono a capire e a sincronizzarsi ma ci mettono molto tempo e non riescono quasi mai ad anticipare il movimento. Non scatta il meccanismo della predizione. Fare musica, e comprenderla, è una dote umana.

Poi a un certo punto una certa canzone ci “esce dalle orecchie”, che cosa significa?
Che non ne possiamo più. Lo stimolo si trasforma in qualcosa di meno utile/interessante per la mente. La prima volta che siamo esposti a un brano o a un genere musicale il nostro cervello tende a non capirlo, e quindi inizia uno sforzo importante, accompagnato da ricompense di piacere. Quale pezzo ci piace veramente la prima serata di Sanremo? Perdiamo il senso di piacere quando diventiamo troppo abili nel predire il ritmo e nessuno stimolo ci colpisce più. Anche se, magari dopo mesi, riusciremo a trarne nuovo godimento.

La durata dell’effetto dopamina si accorcia man a mano che ascolta la musica?
La sensazione è quella che finisca un piacere e questo ci porta un down dell’umore. È molto intenso dopo i concerti. Quando proviamo stanchezza fisica ma anche la sensazione di aver lasciato andare un’emozione forte.

Non sempre i suoni hanno un ritmo, eppure ci sono tecniche di rilassamento che sembrano non averne bisogno.
Si tratta di musiche molto lente. Anche senza ritmo modulano lo stato di arousal ossia di attivazione degli stimoli. Con suoni ritmati avremmo uno stato di eccitazione non di rilassamento. Ma sta a noi capire di quale musica abbiamo bisogno in un dato momento. Quando corriamo al parco aumentiamo i BPM, quando meditiamo una musica a basso arousal permette introspezione. 

Che cosa accade se ci addormentiamo con la musica?
Altro mistero. È chiaro che rimangono in funzione alcune delle aree preposte. Ma molti processi consci tipici della fase di veglia non ci sono più. 

Quindi fa male.
Beh non fa bene al sonno, è comunque uno stimolo esterno che crea dei micro risvegli. Però c’è anche chi riesce a isolarsi al punto da raggiungere il sonno con la musica.

La pubblicità ci ha abituati ad associare la musica a stimoli d’acquisto. Oggi la novità è il neuro-marketing? 
Il neuro-marketing aggiunge la “neuro” a tutte quelle tecniche persuasive affinate nel passato. Le nuove conoscenze dei processi neurali sono efficaci per vendere. I jingle che funzionano possono essere associati ad altri stimoli visivi o parole che colpiscono il bersaglio con più precisione, rimanendo nella memoria. 

Usa spesso il termine “predittivo” riferito al cervello. È usato anche nell’addestramento dell’Intelligenza Artificiale.
Perché l’IA copia il cervello, che è predittivo, anticipa azioni e situazioni ambientali già sperimentate, per facilitarci il compito e adattarci a ciò che abbiamo davanti. Fa impressione perché quando parliamo di IA spesso il meccanismo è forzato e oltrepassa la predizione di ciò che accade nella nostra vita e guida i comportamenti per indurci ad acquistare.

È giusto irritarsi quando la tv associa un brano che amiamo a qualcosa che non ci piace?
Ci sentiamo lesi perché quelle emozioni fanno parte di un nostro background, sono una nostra ricchezza. Nel momento in cui è associato qualcosa d’altro è un tradimento. Mi piace pensare però che la musica e l’arte siano di tutti e che sia giusto che ognuno abbia la propria sensazione. È per questo che gli autori non vogliono fornire interpretazioni univoche dei propri brani.

Si può fare una domanda di filosofia a una scienziata? Arthur Schopenhauer in “L’arte della musica” spiega che le melodie esisterebbero anche senza il mondo e l’umanità, ha ragione?
In realtà è una domanda molto scientifica, è un dibattito molto aperto tra due grandi fazioni, i cognitivisti come Steven Pinker pensano che la musica non abbia un senso evolutivo, quindi che se ne stia lì, come qualcosa di buono che ci fa piacere mangiare, ma se lo togliamo dalla dieta non succede niente. Dall’altra parte ci sono coloro che vedono nella musica un percorso adattativo mirato a farci ottenere benefit specifici. Lo stesso Darwin proponeva la musica come utile per la scelta del partner in quanto modo pre-linguistico di esprimere le emozioni. 

Ha pubblicato un lavoro sulle playlist, parola chiave del nostro tempo, che cosa ha capito?
È il primo di una serie. Stiamo cercando di capire se condividere la musica con gli altri aumenta il piacere. Realizzato online a causa del Covid, ha evidenziato che ascoltare lo stesso brano insieme ad altri a distanza aumenta il piacere. Però una volta passati all’esperimento in presenza, è uscito il risultato opposto, le persone hanno provato più piacere da sole perché non si sentivano connesse agli altri. Mancava qualcosa da condividere, per esempio la passione per uno stesso autore. Questo apre a una nuova frontiera di ricerca, dove non si studia più un cervello da solo, ma assieme e in relazione con altri cervelli. 

Che impatto ha avuto il Covid nell’ascolto della musica?
Un potere enorme, di connetterci. Durante il lockdown la musica è stata sempre sul podio delle attività più utili ed efficaci per affrontare la crisi. Abbiamo visto che c’è stata una relazione inversa tra il numero di ore passate con la musica e i sintomi depressivi riportati, che diminuivano.

Lei suona qualche strumento? Che musica le piace di più?
Suonavo il piano, ma ho smesso. E oggi ascolto molta musica elettronica e hip hop.

Concludiamo con la sua personale playlist del momento?
Beh ecco sì, ma è momentanea. Al primo posto  “Abusey Junction” dei Kokoroko, al secondo “Nothing Left to Lose” degli Everything But The Girl; al terzo “Pugno di Sabbia” dei Subsonica. Poi “Tristesse” di Zaho de Sagazan e per chiudere “Cara” di Lucio Dalla.

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