È il luglio del 2013, Anthony Weiner è in mezzo all’ennesimo casino dovuto al non saperselo tenere nelle mutande (si è di nuovo candidato a sindaco di New York, e ci sono delle ennesime foto del pisello che mandava a sconosciute).
Huma Abedin è ancora sua moglie (avanzamento veloce di undici anni: tre settimane fa si è fidanzata col figlio di Soros), e lavora ancora per Hillary Clinton, che a quel punto sono tutti certi sarà la prossima presidente degli Stati Uniti.
Olivia Nuzzi ha vent’anni e mezzo (a quell’età si contano i mezzi) e ha fatto la stagista nella campagna elettorale di Weiner, ma vuol fare la giornalista. Avanzamento veloce: ci riuscirà, ora ha trentuno anni ed è tra le più brave d’America e sicuramente la più brava della sua generazione, scrive di politica per il New York e Bloomberg sta mandando in onda “Working Capital”, un ciclo di sue interviste ai potenti di Washington.
Allora però ha vent’anni ed è molto ambiziosa (lo è ancora, probabilmente: l’ambizione è un difetto solo se ne hai in quantità sovrabbondante rispetto al talento). Vende al Daily News un articolo dal di dentro della campagna elettorale, un racconto in prima persona che è facile venga equivocato per ripicca e non per giornalismo o letteratura. Concorda quindi che non lo metteranno in prima pagina e non useranno una sua foto.
La mattina del 30 luglio 2013 il New York Daily News apre la prima pagina con una foto di Olivia, una di Anthony, e il titolo «Esclusivo – La gente lavora per Weiner solo per arrivare a Huma e Hillary – Dentro quel circo che è la sua campagna». La biondina che fino ad allora nessuno conosce non sembra una giornalista all’esordio in prima pagina con una storia in prima persona, ma una con più ambizioni che talento che ha dato un’intervista a un tabloid svelando le magagne del posto in cui ha lavorato.
Due sere fa, Olivia Nuzzi ha raccontato nelle storie di Instagram che quella mattina passata a comprare tutte le copie del Daily News che trovava sperando che nessuno lo vedesse all’epoca le sembrava la più assurda della sua vita, e undici anni dopo non è neanche tra le prime dieci; che pensava fosse la fine del mondo e non lo è stata; che in occasione di quello sputtanamento totale globale anzi ha imparato un sacco di cose. (In un’intervista del 2020 aveva detto che scrivere quel pezzo non pensava avrebbe avuto conseguenze, «non avevo il cervello del tutto sviluppato»).
Questo però non è un articolo sullo schema fisso dello scandalo del momento, che sembra sempre insanabile e poi – sempre – passa velocissimo. Non è neppure un articolo su Olivia Nuzzi che tira fuori una storia di undici anni fa che nessuno ricorda perché è consapevole di una cosa che sanno in sempre meno su come funzionano le narrazioni in prima persona (no, su questo un po’ lo è, ma ci arriviamo dopo). Questo è un articolo sui giornali.
«Ogni giornale dovrebbe pubblicare quotidianamente un’avvertenza del genere: “Questo giornale, con la sua massa di parole, è stato prodotto in una quindicina di ore da un gruppo di esseri umani non infallibili, che lavorano in redazioni anguste e cercano di scoprire che cosa è successo nel mondo da persone che a volte sono riluttanti a parlare, e a volte oppongono un deciso ostruzionismo”». Lo scriveva David Randall in “Tredici giornalisti quasi perfetti”, la persona che me l’ha fatto leggere lavora in un giornale e sospetto che ogni giorno sia tentata di apporre una foto di quel paragrafo come risposta al continuo indignarsi contro qualche articolo o titolo da parte di baristi che non sanno fare il cappuccino della temperatura giusta, chirurghi che hanno dimenticato strumenti nella pancia di qualcuno, e fruttivendoli che mettono i pomodori marci a otto euro al chilo.
Nel Grande Indifferenziato che caratterizza il dibattito pubblico, le obiezioni sensate e quelle lunari sono impossibili da distinguere, se uno fa un altro lavoro o anche solo se guarda i social con la scarsa attenzione con cui è giusto guardarli.
Mi balocco con l’idea di scrivere un articolo sulle convinzioni strampalate dell’umanità rispetto al funzionamento dei giornali da qualche settimana, cioè da quando un tizio su Facebook spiegava che i miei articoli non erano malaccio, «quando non la costringono a scrivere ogni settimana lo stesso articolo sulla cancel culture e le persone trans».
Mi sono trattenuta dal rispondere che veramente questi sono temi miei, che semmai Linkiesta ospita perché ho troppo un brutto carattere per dirmi di no, epperò a testimonianza di quale sia la linea della testata sul tema conservo tra le cose più care un articolo di Cundari di quattr’anni fa, in cui parlava della cancel culture italiana come «la battaglia contro l’inesistente dittatura del politicamente corretto». Lo linkò persino Michela Murgia, diamine.
Ho pensato – era evidentemente un pomeriggio di delirio d’onnipotenza – che fosse più utile spiegare al tizio che i giornali non funzionano così: chiedi a qualcuno di scrivere opinioni perché ti pare su pagina possano funzionare le sue, non perché metta in bella copie le tue. Non è neanche questione d’essere liberali o chissà che altro: è che sarebbero soldi buttati.
Ma il tizio la sapeva lunghissima, e mi ha spiegato che «Se qualcuno ti paga per scrivere, qualcuno ha potere di decidere cosa scrivi. Anche io devo fare il lavoro per cui sono pagato e non quello che mi va». (Sono andata a guardare la bio, c’è scritto che è dottorando in un’università olandese, e una non vorrebbe sempre infierire sullo stato delle università, però ce la costringete).
Ho pensato a Massimo Giannini, che in tre anni e mezzo di direzione della Stampa sarà stato d’accordo con Mattia Feltri forse tre volte, ma escludo gli sia mai venuto in mente di dirgli cosa scrivere. Ho pensato a Michele Serra, che scrive cose contro la linea di Repubblica praticamente ogni giorno, e se il dottorando mi fosse sembrato in grado d’imparare qualcosa gli avrei svelato il mio sospetto che lo faccia con gran libertà non solo perché non contrattualizzi Michele Serra per poi dirgli cosa scrivere, ma anche perché gli articoli li leggono poco i lettori ma ancora meno quelli che li mettono in pagina.
Ci ho pensato di nuovo tre giorni fa, quando su Twitter c’è stato un quarto d’ora di quel fenomeno che d’ora in poi chiameremo «dottorandismo». Poiché Serra aveva scritto un’Amaca contro la pubblicazione dell’intercettazione del colloquio tra Turetta e il padre, l’internet gli spiegava che due pagine prima, su quello stesso giornale, c’erano appunto stralci di quell’intercettazione.
Sono intervenuta (le cose che faccio pur di non lavorare) spiegando ai dottorandi presenti che, se leggessero Serra con un po’ di continuità, rileverebbero nei suoi scritti una notevole frequenza di dissenso col giornale su cui scrive. Ma sapevo che era inutile: l’internet pensa che, se non concordi in ogni dettaglio con tutto, tu da un posto debba andartene (è la ragione per cui la sinistra ha trecentoventisette partiti: perché l’elettorato di sinistra è scemo come l’internet).
Uno mi ha scritto: «Ma credo che Serra, oltre a scriverne visibilmente scandalizzato, potrebbe anche arrabbiarsi nelle riunioni di redazione… O no?». L’idea del venerato maestro che scende dal trattore per andare alla riunione di redazione a dire agli altri come debbano pensarla mi ha messa quasi di buonumore, poi mi è venuto il dubbio che sia colpa degli sceneggiati televisivi: se ci fosse stato un “Grey’s Anatomy” del giornalismo, così come sappiamo che i chirurghi si disinfettano le mani prima degli interventi, sapremmo che la frase più detta dai collaboratori di tutti i giornali in questo secolo è «Lo mandi con un refuso, esce con un refuso».
Questa non è una difesa dei giornali, anche perché sarei la meno adatta a farla. Coloro che lavorano nei o coi giornali si dividono in coloro che sanno che se mi rispondono al telefono si sentiranno dire «Ammazza che schifezza che hai scritto», e in quelli cui tocca «Ammazza che schifezza che hai pubblicato». La cosa interessante è che tutti, ma proprio tutti, sono entusiasti d’infierire sulle schifezze altrui, e presi da una specie d’incantesimo psichiatrico che li convince che pessimi siano sempre i giornali altrui (o i loro, però nelle pagine con cui non hanno a che fare loro).
Sono più brutti di prima, i giornali? Tutto è più brutto di prima, perché l’unico welfare che siamo riusciti a costruire è l’illusione che tutti possano avere mansioni intellettuali, e oltretutto siamo troppi. Troppi, troppo mitomani, e più mitomani più con autodiagnosticata sindrome dell’impostore. Gli asini miracolati non si percepiscono mai asini miracolati che in un secolo più selettivo avrebbero lavato le scale, ma sempre geni incompresi che in altri tempi sarebbero diventati Giorgio Bocca o Natalia Aspesi.
Siamo troppi (al mondo, e anche nei giornali), e non sa lavorare quasi nessuno (al mondo, nei giornali, ovunque). In quel pezzo del 2013, Olivia Nuzzi riferiva che Weiner non riusciva a ricordarsi i nomi dello staff. Le chiamava tutte Monica. Se lo metti in un romanzo ti dicono che esageri, ma d’altra parte pure sputtanarsi due campagne elettorali perché ti fotografi il bigolo è un livello di cialtroneria riscontrabile solo nella realtà.
Quando tutti i miei conoscenti si agitano perché Repubblica, per titolare sulle quattro atlete della scherma, ha scelto un ubriaco «L’amica di Diletta Leotta, la francese, la psicologa e la mamma», io penso che ogni asino miracolato che fa il titolista è un asino miracolato di meno che si specializza in cardiochirurgia, e insomma tiro un piccolo sospiro di sollievo.
Certo, lì il problema diventa un altro, e cioè come puoi essere così fesso (o fessa), nel 2024, da non sapere che se fai un titolo così poi ti lanciano addosso tutti i «se lo vedesse Michela Murgiaaaa» del mondo per un intero pomeriggio. Magari lo fai per farti pubblicità, vai a sapere.
Il calcolo degli imprevisti e delle probabilità è umano, e il numero di interazioni che hai se c’è un’enorme puttanata nel titolo lo ottieni solo scrivendo un piccolo capolavoro nel testo; e non possiamo nasconderci che è di più semplice esecuzione il titolo imbecille che il testo all’altezza di “Frank Sinatra has a cold” (ma anche solo di “La rabbia e l’orgoglio”).
Olivia Nuzzi racconta che solo anni dopo seppe che al Daily News avevano deciso di violare l’accordo sulla non pubblicazione della sua foto in prima pagina sapendo che non le conveniva far causa. Dice anche che all’epoca la portavoce della campagna di Weiner dichiarò che era una stronzetta che non sapeva fare il suo lavoro, e così diventò lei la notizia, e Olivia ebbe pace, e che in effetti lei quel lavoro non lo sapeva fare e ora sono amiche.
La leggo e penso a un recente caso di articolo imbarazzante su cui ci siamo tutti accaniti chiedendoci come si potesse pubblicare una roba del genere. Erano cento righe di voce Wikipedia del femminismo usate per arrivare ai tre paragrafi finali, quelli che all’autrice interessava scrivere. Quelli in cui raccontava il terribile trauma d’un tizio che le aveva detto di mettersi davanti in macchina perché era più culona delle altre e così sarebbero state meno strette (ovviamente il tapino l’aveva detto educatamente, «culona» è mio).
Il dibattito che è seguito non è riuscito a dirimere il punto sulle responsabilità – è più grave scrivere una roba del genere avendo superato i dodici anni, o pubblicare una roba del genere invece di dire «cara, perché non ne fai un video per TikTok? Lì sì sarebbe un successo, puoi anche piangere mentre racconti»? – ma si è concentrato su, cito una persona che commissiona articoli, «questo fraintendimento per cui tutto quello che è personale è interessante».
Olivia Nuzzi dice che a lei capita d’essere oggetto d’articoli più di frequente di quanto accada ad altra gente che scrive, e che da una parte è un bene, perché quella di chi scrive sui giornali è «un’industria che in parte si regge sul saper stare al centro dell’attenzione».
C’è un’osservazione che per anni ha accomunato Vongola75 e il giornalista medio, ed è quella su coloro che, santo cielo, scrivono «io». Abbiamo per anni letto recensioni al plurale, e io per anni mi sono chiesta quel «noi» per chi stesse: il critico e il suo gatto? Poi è successo questo secolo.
È successo il telefono con la fotocamera, è successa la connessione permanente, è successa la dittatura dei cuoricini, è successa la conversione di massa al racconto dei fatti miei.
E adesso c’è questo fenomeno patetico dello scrivere in prima persona senza avere niente di interessante da dire e, quel che è più grave, essendo determinati a far bella figura. Fenomeno alimentato dal fatto che siamo troppi, e che ci sarà sempre qualcuno che trova interessante il tuo mediocrissimo niente, e sui social ti scrive «capolavoro».
Ma io, lettrice esigente, non voglio sapere quanto sei stata brava a dare al tizio che ha notato il tuo culone una risposta tranchant: voglio sentire da Olivia Nuzzi quant’è stata cretina a vent’anni, voglio una storia il cui scopo precipuo sia interessare chi ascolta, non indurlo a fare i complimenti all’altruismo e al coraggio e alla fantasia dell’autrice.
Una volta Ettore Scola disse che il problema non è il narcisismo, ma che se sei narcisista e non vali un cazzo hai sprecato un’occasione. Vale come sinossi della carriera politica di Weiner, ma anche come chiarimento di quell’equivoco: il problema non è se scrivi «io», ma se non lo fai seguire da predicati e complementi interessanti. Il problema non è il titolo sulle schermitrici: è che neppure «L’amica di Diletta Leotta» è bastato a farmi aprire quell’articolo.