Certo, bisognerebbe parlare di Joe Biden che è la nuova Kate Middleton. Tutto il delirio paranoide che all’inizio dell’anno era riversato sulla principessa, che i saperlalunghisti dell’internet erano certi fosse defunta e nascosta nelle cantine di Buckingham Palace, ora viene applicato al presidente degli Stati Uniti. Gente che ne chiede la «proof of life», neanche fosse l’erede Getty rapito: è ovvio che, se si dimette con un tweet e poi non lo vediamo, allora è morto.
Certo, bisognerebbe parlare della nuova frontiera di scemenza che è l’obiezione, da destra, all’eventuale candidatura di Kamala Harris: non può fare la presidente, non ha mai avuto figli, le preoccupazioni delle famiglie per lei saranno sempre astratte. Pensi che tutti i danni dell’identitarismo stiano a sinistra, e invece eccoli qua quelli speculari: se non hai mai partorito, mica puoi sapere che sarebbe civile avere il congedo di maternità per legge (la più grande democrazia del mondo lascia l’opzione alla generosità delle aziende).
Però ieri il New York Magazine ha instagrammato la copertina che aveva fatto un anno prima delle elezioni del 1992, e comincerei da lì, ché mi pare utile per capire quanto sia andato a puttane, in questi decenni, il giornalismo politico.
Lo so che i necrologi del giornalismo si ripetono uguali da un secolo. Era il 1965 quando Tom Wolfe scriveva – sul New York, allora allegato domenicale dell’Herald – “Tiny Mummies!”, “Mummiette!”, una satira di cos’era diventato il New Yorker, «ottuso e presuntuoso». Era il 1999 quando, in “Gone – The last days of the New Yorker”, Renata Adler apriva il libro con le parole «Mentre sto scrivendo, il New Yorker è morto. Esce ancora ogni settimana».
Poi ci torniamo. Prima, quella copertina del New York del 1991. Il titolo era “Battere Bush (potrebbe accadere)”, e su quella copertina c’era l’elaborazione grafica d’una foto di Bush, ma nessuna foto di colui che quattordici mesi dopo si sarebbe insediato alla presidenza degli Stati Uniti, un tal Bill Clinton.
La didascalia con cui il giornale la instagramma nel 2024 è «A volte i candidati giovani ed energici arrivano inaspettati e battono quelli più vecchi», e anche su questa didascalia poi ci torniamo, perché prima mi urge concentrarmi su un altro dettaglio.
Quell’articolo del 1991 lo aveva scritto Joe Klein, che magari non avete mai sentito nominare ma, se invece lo conoscete, è plausibile sia non per un articolo sulle possibilità di vittoria di Clinton, ma per un romanzo retroscenista sulla campagna elettorale proprio di Clinton, “I colori della vittoria”, uscito nel 1996 e poi diventato un film di Mike Nichols. Era meno di trent’anni fa, e non ci sembrava assurdo che uno che di mestiere racconta la realtà dicesse che Bush si poteva battere e poi svelasse le magagne di chi l’aveva battuto. Non si era ancora tutto trasformato in curva di stadio, non esisteva ancora il dovere della tifoseria.
Ieri Bari Weiss ha scritto della congiura del silenzio sul declino cognitivo di Biden, dei mesi in cui tutti sapevano e tacevano, e se ne scrivevi ti davano del disinformatore russo o giù di lì. Certo, l’umanità è fessa e i disinformatori russi se ne approfittano, però a pensare che il dovere del giornalismo sia far votare il pubblico dalla parte giusta e non raccontare le cose come stanno si finisce così: che la fine di Biden diventa una specie di rifacimento noioso di “Che fine ha fatto Baby Jane?”.
È peraltro interessante che l’accusato principale sia diventato George Clooney, che nel suo editoriale sul New York Times, due settimane dopo il disastroso dibattito di Atlanta, ha scritto che alla raccolta fondi di tre settimane prima lui si era accorto che il presidente era ormai rincoglionito e non somigliava minimamente all’uomo che aveva visto lavorare con Obama o persino a quel che era quand’era diventato presidente. Ah, marrano, perché non l’hai detto prima, vile. Fatemi capire: quel che non hanno detto tutti i giornali americani rispettabili (cioè: tutti quelli che non volevano farsi dare del propagandista repubblicano) aveva però il dovere di dircelo Clooney? Ma in quanto pediatra di “E.R.”, epperciò abilitato a diagnosticare Biden? In quanto figlio di giornalista, epperciò dotato di senso della notizia ereditario?
Prima di un attore scambiato per giornalista, c’era stata la miglior giornalista della sua generazione, e forse la miglior giornalista politica d’America. Dopo il dibattito di Atlanta (prima del quale, perdonate la divagazione, io non riesco a non immaginarmi Joe – consapevole della probabile figuraccia ma succube dell’ambizione della moglie – che dice a Jill, come Ashley a Rossella e Melania, «allora andrò ad Atlanta, siete in due contro di me»), la congiura del silenzio era in un articolo di Olivia Nuzzi sul New York Magazine. Sono sei mesi che il rincoglionimento di Biden viene nascosto, scriveva Nuzzi, facendo il suo mestiere. Il che è ormai strano, visto che i giornalisti sono quelli che postano le foto con gli intervistati per prendere i cuoricini. E quindi, il pubblico disabituato tratta Nuzzi come una traditrice.
E allora perché non l’hai scritto prima. E allora a chi stai cercando di tirare la volata. E allora Trump. E allora chi ti manda. Ogni volta che vedo un professionista costretto a dare spiegazioni a Vongola75 io soffro. Nuzzi si mette lì e spiega. Sono lenta a scrivere. Certe fonti prima che la questione diventasse evidente col dibattito non volevano parlare. Anche dopo il dibattito, ci sono stati quelli disposti a farsi citare solo anonimamente. Se posso storpiare un dialogo di “The West Wing”: Nuzzi vive nel mondo della politica professionale e del giornalismo adulto, Vongola75 vive nel mondo delle assemblee d’istituto.
Olivia Nuzzi ha trentuno anni: giovane, energica, non esattamente inaspettata. Wolfe, quando scrisse “Tiny mummies!”, ne aveva trentacinque. Bill Clinton durante la prima campagna presidenziale aveva quarantacinque anni (ne compì quarantasei un mese dopo aver ottenuto la candidatura), Joe Klein ha un mese meno di lui, Donald Trump ne ha due di più (ma nel ’92 non era candidato: in compenso lo è trentadue anni più tardi).
Almeno una volta all’anno, io rivedo “The war room”, documentario uscito quando Clinton era presidente da un anno e girato durante la sua campagna elettorale. È un documentario con la collaborazione dell’oggetto della storia, eppure comincia con Gennifer Flowers che dice d’essersi scopata Clinton per sedici anni, e il presidente un po’ imbarazzato a dover smentire d’aver avuto una storia con una con quei capelli, Quindi c’è stato un tempo in cui era pensabile che un trumpiano facesse un documentario sull’eroe della sua curva dando risalto a Stormy Daniels, c’è stato un tempo in cui la drammaturgia veniva prima della tifoseria.
La prima volta che l’ho visto, “The war room” mi pareva una storia di adulti, e ora sullo schermo vedo dei bambini. George Stephanopoulos – il responsabile della comunicazione di quella campagna, che di recente avete visto fare un’intervista riparatrice a Joe Biden dopo il disastro del dibattito, intervista che non ha riparato granché – aveva trentun anni.
Il più vecchio era James Carville, che ha due anni meno di Joe Biden e quindi all’epoca era uno splendido quarantottenne. Carville è quello che allora inventò lo slogan «It’s the economy, stupid», e che due settimane fa ha scritto un editoriale sul New York Times che cominciava così: «Segnatevi le mie parole: Joe Biden uscirà dalla corsa alle presidenziali del 2024».
(Proseguiva dicendo che l’errore che Trump stava pregando i Democratici facessero sarebbe stato quello d’investire d’imperio la vicepresidente come candidata, invece di fare quattro dibattiti pubblici, ai quattro capi del paese, con le televisioni, con Barack e Bill che guidano le danze, «tipo il Superbowl con Taylor Swift sugli spalti»: se vuoi un’idea di comunicazione intelligente, chiedi a un boomer).
Il New Yorker ha appena intervistato il direttore del New York Times, Joe Kahn, che il primo giorno del congresso che deciderà il candidato democratico compirà sessant’anni. Gli fanno svariate domande sui giornalisti giovani, quelli che ci tengono molto a non essere disapprovati dai loro coetanei, quelli per i quali ogni articolo dev’essere quel che Francesco Piccolo chiama «il pezzo confermativo», l’articolo che non ha senso scrivere perché sai già che i tuoi lettori faranno sì con la testa e che però è l’unico che tutti vogliano scrivere nel secolo che ha rimpiazzato il talento col consenso.
La generazione dei cuoricini vuole solo pezzi confermativi, e allora come fai a fare un giornale e non una curva di stadio, come fai a dire ai lettori (ma pure ai redattori) cose che non vogliono sentirsi dire, come fai a dare notizie che non confermino le loro convinzioni? Kahn cita il caso d’una giornalista che ha raccontato alcune storie di effetti avversi da vaccino, di come in quei casi ci siano lettori che hanno reazioni spiacevoli (le avranno dato della picchiatella no-vax, è come se li vedessi, figuriamoci), «e allora noi dobbiamo appoggiare con decisione la nostra giornalista, il suo lavoro, ma anche darle gli incentivi e il sostegno per permetterle di fare una cosa del genere».
Lo dice in un tono eroico che un po’ fa ridere e un po’ fa paura. Guardateci, che cosa pazzesca che facciamo: raccontiamo le cose che vediamo, sebbene spiacevoli da ammettere, invece di agitare i pon pon come brave cheerleader incoraggiando chi conferma le nostre convinzioni.
Certo, bisognerebbe chiedersi se ci siano poi tutte ’ste differenze nell’ordine di grandezza della scemenza, tra dire che una donna senza figli non può fare il capo d’una nazione, e che Biden è morto perché nessuno lo fotografa da giorni, e che i vaccini non sono solo utili ma anche dilettevoli, e che qualcuno che racconta quel che vede sebbene contrario alle convinzioni della minoranza cuoricinante è un eroe. Pensavo che scrivere la verità fosse eroico in posti come l’Iran, e invece scopro che lo è qui, in mezzo a noialtri intellettuali occidentali disabituati al pensiero. Che ci risulta inaccettabile persino se ad articolarlo è George Clooney. In quel caso, però: possiamo farci una foto?