Non c’è forse migliore cartina di tornasole dell’emergenza demografica italiana del calo inesorabile degli studenti. Ancora più dell’aumento degli anziani e dei pensionati o della diminuzione della popolazione in sé, perché la riduzione di quella studentesca significa la riduzione dell’unico capitale che in fin dei conti può sostenere la crescita di un Paese, quello umano.
I dati del Ministero dell’Istruzione e del Merito ci dicono che nell’anno scolastico che è appena iniziato, il 2024-25, ci saranno altri centodiecimila studenti in meno, scenderanno a poco più di sette milioni. Questo calo rappresenta una notevole accelerazione rispetto a quello che si è già verificato negli scorsi dieci anni, tra il 2013-14 e il 2023-24, in cui sono stati persi quasi settecentomila alunni, ovvero 68.426, uno ogni dodici mesi. La diminuzione dell’1,52 per cento in un solo anno si va ad aggiungere alla riduzione dell’8,68 per cento nel decennio passato.
Nello stesso lasso di tempo le sezioni attive sono scese meno, dello 0,75 per cento, e mediamente, quindi, hanno accolto ognuna meno alunni. Quello che una volta era il problema del sovraffollamento delle classi ora si sta trasformando nel problema del loro svuotamento. In controtendenza ci sono i numeri sugli studenti disabili, che sono cresciuti di ben il 50,16 per cento, arrivando a più trecentomila, si tratta dell’esito della messa a nudo di situazioni a lungo ignorate, quando bambini e ragazzi con difficoltà venivano lasciati a se stessi e al sacrificio degli insegnanti, senza assistenza specifica.
Si tratta, però, di un ulteriore cambiamento ed è tanto più difficile da gestire quanto più è veloce e coincide con un ridimensionamento di tutto il sistema che, per giunta, è asimmetrico a livello geografico e non è parallelo alla crescita degli studenti disabili.
La diminuzione degli alunni è stata minore al Centro Nord e in Emilia Romagna tra il 2013-14 e il 2023-24 c’è stato addirittura un piccolo aumento dello 0,38 per cento. È qui, come in Lombardia e in Toscana, altre regioni che hanno visto un calo inferiore degli studenti, che si è verificato il maggior incremento di quelli disabili, aumentati di più del sessanta per cento. Questi ultimi, però, sono cresciuti molto, più della media, anche in alcune aree dove, viceversa, la desertificazione scolastica è stata imponente, per esempio in Calabria e in Sardegna. In queste regioni sarà ancora più arduo gestirli, perché qui, come in quasi tutto il Mezzogiorno, i bambini e i ragazzi sui banchi si sono ridotti di più del dieci per cento in dieci anni. I dati peggiori in questo senso sono quelli del Molise, della Basilicata e della Puglia, dove il calo è stato del 30,1, del 17,81 e del 16,38 per cento.
Ed è destinato ovviamente a peggiorare, poiché è nei cicli frequentati dai più piccoli che il tracollo demografico è più preoccupante. Nella scuola dell’infanzia c’è stata una diminuzione dei bambini del 21,4 per cento, alle elementari del 14,55 per cento. È poi vicino al dato medio nazionale alle medie, -8,25 per cento, mentre nelle scuole superiori negli scorsi dieci anni si è visto ancora un aumento, seppur lieve, +2,01 per cento.
Questi dati si riferiscono alle scuole statali, ma sarebbero ancora peggiori se includessimo quelli relativi alle paritarie, che hanno visto un crollo degli iscritti ancora maggiore, del 21,73 per cento, pure in questo caso maggiormente accentuato nella scuola d’infanzia e in quella elementare. Anche qui c’è un lievissimo segno più solamente nell’ambito delle scuole superiori, ma ancora per quanto?
Dato significativo, la crescita di poco meno di cinquantadue mila unità degli alunni dei licei, degli istituti tecnici e professionali statali è stata quasi interamente dovuta all’incremento di quelli stranieri, che nello stesso periodo sono aumentati di più di quarantasette mila unità in questo ciclo. Nel complesso gli studenti con cittadinanza non italiana sono cresciuti di più di centotrentaduemila in dieci anni, ovvero del diciotto per cento.
Complessivamente non sono bastati a impedire l’emorragia delle classi, che, però, sarebbe stata ancora peggiore se non ci fossero stati questi bambini e questi ragazzi, la grande maggioranza dei quali, secondo un’indagine di un anno fa, è nata in Italia, il 65,4 per cento per la precisione. Alla luce di questi numeri appare piuttosto ridicola la lotta di retroguardia contro la concessione della cittadinanza a quanti in questo Paese sono venuti al mondo o sono arrivati molto piccoli e in cui rimarranno, perlomeno si spera. Come si vede tra i pochi problemi collegati alla loro presenza il principale è probabilmente quello che sono troppo pochi, se dovesse essere varato qualche provvedimento che li riguarda forse dovrebbe proprio essere uno che cerca di trattenerli in Italia, che li faccia sentire anche di diritto parte della comunità cui appartengono già di fatto.
Un altro problema è che il loro aumento è stato troppo concentrato nelle regioni in cui erano già di più. Quello che è avvenuto in Lombardia, di quasi quarantuno mila unità, per esempio, corrisponde al trentuno per cento di quello totale, anche se la popolazione lombarda è poco più di un sesto di quella italiana.
E tra l’altro neanche in Lombardia è servito a compensare la riduzione degli studenti, come non servirà, a livello nazionale, a impedirla altrove. Non alle elementari, dove il crollo degli alunni è già stato generalizzato e non ha risparmiato neanche le province lombarde ed emiliane, con cali quasi ovunque superiori al dieci per cento.
E non servirà neanche alle superiori, in cui l’incremento degli alunni gli ultimi dieci anni si è verificato solo dalla terza in poi, e quindi, man mano che gli studenti più grandi si diplomeranno, si trasformerà anche qui in decremento. Un decremento concentrato tra gli iscritti alle scuole professionali, che nell’ultimo decennio sono diminuiti di ben il 18,43 per cento e che scenderanno ancora, visto che il primo anno il calo è stato del 37,37 per cento.
Quest’ultimo è un dato rilevante nel momento in cui l’attenzione deve per forza passare dalla quantità alla qualità, in cui diventa cruciale assicurarsi che nulla vada sprecato, che i sempre meno numerosi ragazzi che finiranno le superiori saranno almeno veramente formati, sia per gli studi universitari che per il lavoro. L’enorme spreco rappresentato dall’abbandono scolastico è per fortuna meno grave di un tempo, a non raggiungere il diploma nel 2023 era il 10,5 per cento dei ragazzi, contro il 16,8 per cento di dieci anni prima, ma non basta. Si tratta di punti percentuali recuperati su una platea che però è in continuo calo.
Visto che meno di metà di quanti terminano le superiori intraprende la strada della laurea, sapremo garantire che possano entrare nel mondo del lavoro, soprattutto in quell’industria così affamata di professionalità specialistiche, con la necessaria preparazione? Anche con un tale crollo dell’istruzione professionale? La sfida della demografia sembra essere ormai più grande di noi, quella della formazione può, o meglio deve, essere alla nostra portata.