All’inizio del 2024 si stimava in quasi un milione e mezzo di chilometri la lunghezza dei cavi in fibra ottica posati sotto a tutti i mari del pianeta. Fondamentali (in tanti sensi): più del novantacinque per cento del traffico dati mondiale passa da loro. Un mercato enorme che, secondo la società di consulenza Market Research, dovrebbe raggiungere una dimensione di 53,8 miliardi di dollari entro il 2030, con una crescita del 12,9 per cento nel periodo 2023-2030.
Circa il novantotto per cento (2021-Center for Strategic & International Studies) dei cavi sottomarini del mondo è prodotto e installato da quattro aziende private: la società statunitense SubCom, la francese Alcatel Submarine Networks (Asn), la giapponese Nippon Electric Company (Nec) – che insieme detengono circa l’ottantasette per cento del mercato – e la cinese Hmn Technologies, precedentemente nota come Huawei Marine Networks, con una quota dell’undici per cento ma con la crescita più sorprendente.
Negli ultimi quattro anni Hmn ha fornito il diciotto per cento dei cavi sottomarini (in termini di lunghezza) che sono stati posati in tutto il mondo, nonostante il blocco americano promosso dal cosiddetto «Team Telecom», il comitato inter-agenzie istituito nell’aprile 2020 con un ordine esecutivo dell’allora presidente Trump con lo scopo di salvaguardare le reti di telecomunicazioni statunitensi da spie e attacchi informatici.
La sua crescita è dovuta anche alla realizzazione della spinta del governo cinese che nel 2015 varò l’ambiziosa Digital Silk Road (Dsr) o «Via della Seta Digitale», una sorta di spin-off della più nota «Belt and Road Initiative» (Bri) il cui obiettivo era il raggiungimento del sessanta per cento del mercato globale dei cavi in fibra ottica prestando particolare attenzione alle economie emergenti in Asia, Africa, Medio Oriente e Pacifico. Iniziativa che, a oggi, è riuscita a coinvolgere ben centotrentotto paesi (fonte: EurasiaReview-News&Analysis-agosto 2024).
China Unicom, per esempio, è stata un investitore chiave in Sail, il cavo di cinquemilaottocento chilometri che collega il Brasile con il Camerun che è operativo dal 2020. Ma spesso si trovano consorzi dove convivono entrambe le parti, come in 2Africa. Una volta completato, 2Africa sarà il più «grande» cavo sottomarino del mondo: lungo quarantacinque mila chilometri collegherà quarantasei stazioni di atterraggio via cavo in trentatré paesi passando dall’Europa attraverso l’Oceano Atlantico e poi l’Oceano Indiano per poi tornare in Europa attraverso il Mar Rosso e il Mar Mediterraneo. Otto i partner del consorzio: Meta, China Mobile, la sudafricana Mtn, la francese Orange, Saudi Telecom, l’inglese Vodafone e l’africana West Indian Ocean Cable company.
In costruzione da parte di Alcatel Submarine Networks, nell’aprile del 2022 il cavo è approdato a Genova (unico approdo italiano) dove è stato costruito anche un nuovo Data Center (Gn1) da parte dell’americana Equinix. Ma, salvo eccezioni, in questo ambito la competizione «senza esclusione di colpi» tra Stati Uniti e Cina si alimenta di giorno in giorno.
In un’intervista del Financial Times del giugno dello scorso anno un portavoce del Dipartimento di Stato degli Stati Uniti rimarcava: «I Paesi dovrebbero dare priorità alla sicurezza nazionale, alla sicurezza dei dati e alla privacy mettendo in atto politiche e quadri normativi appropriati che escludano completamente i fornitori inaffidabili dall’intero ecosistema Ict, comprese le reti wireless, i cavi terrestri e sottomarini, i satelliti, i servizi cloud e i data center».
Sicurezza e superiorità tecnologica ma anche business. I cavi in fibra ottica sottomarini sono infatti sempre più spesso proprietà – anche attraverso consorzi – di aziende fornitrici di contenuti e servizi (cloud computing) quali Amazon, Google, Meta e Microsoft che ora possiedono e/o affittano ben più della metà di tutta la larghezza di banda sottomarina in tutto il mondo.
Ma i cavi si rompono (e non solo in maniera accidentale). Si stima che ogni anno da cento a centocinquanta cavi vengano tranciati o danneggiati, per lo più da attrezzature da pesca o ancoraggi o attività sismiche sottomarine. E dove non c’è ridondanza (cioè dove non esiste almeno un doppione) può venire a mancare internet.
Nel marzo scorso quattro dei principali cavi in fibra ottica sottomarini che servono l’Africa, incluso il sistema via cavo dell’Africa occidentale (Wacs), sono stati gravemente danneggiati da qualche parte vicino alla Costa d’Avorio (poche settimane dopo che un altro è stato interrotto vicino allo Yemen): la borsa del Ghana ha dovuto chiudere un’ora più tardi per la mancanza di internet che ha impedito il trading. La connettività dei dati in Liberia e nel Benin è scesa al di sotto del venti per cento dei livelli ordinari.
O come il caso del giugno 2022 quando il cavo Aae-1 che collega Asia-Africa-Europa è stato tagliato in aree marine appartenenti all’Egitto mettendo ko sette paesi e in particolare Etiopia e Somalia che hanno perso l’85-90 per cento della rispettiva connettività. In buona sostanza, i cavi a fibra ottica sottomarina sono infrastrutture critiche che, oltre a temi geopolitici legati alla sicurezza e allo spionaggio, nel caso di malfunzionamento possono creare seri problemi alle popolazioni coinvolte.
Nel Rapporto dell’agenzia americana Federal Communications Commission (Fcc) dell’ottobre 2020 si fa riferimento al fatto che Hmn Technologies ha «costruito o riparato» quasi il venticinque per cento dei cavi sottomarini. Quel «riparato» ha messo in guardia da tempo gli Stati Uniti, come rilevava il Wall Street Journal lo scorso maggio. Stati Uniti che, grazie all’iniziativa «Cable Security Fleet» (Csf), ha supportato finanziariamente, con la supervisione del Pentagono, la capacità americana di dotarsi di moderne e avanzate navi in grado di affrontare la riparazione delle infrastrutture sottomarine critiche come i cavi in fibra ottica. La già citata Subcom, ad esempio, riceve dieci milioni di dollari di sovvenzioni annuali dal governo degli Stati Uniti a questo fine.
In un’udienza del Congresso lo scorso gennaio, Ann Wagner, membro repubblicano della Camera dei rappresentanti per lo stato del Missouri, ha detto di essere «molto preoccupata per le aziende cinesi che riparano o addirittura hanno accesso ai cavi sottomarini di proprietà dei vettori statunitensi». Nathaniel (Nate) Fick, uno dei più ascoltati funzionari della sicurezza informatica del Dipartimento di Stato, ha dichiarato al Wall Street Journal che la sicurezza sottomarina dei cavi non può essere assicurata se le linee «sono costruite, mantenute o riparate da fornitori che sono subordinati o sono in debito con governi autoritari».
Primati tecnologici, business, spionaggio e competizione geopolitica. Questo spiega perché il ministero delle Finanze Italiano insieme a un Private Equity spagnolo si sono fatti avanti per acquistare da Tim (che vende per far cassa) un gioiellino come Sparkle che gestisce circa seicentomila chilometri di cavi sottomarini in fibra ottica e ha una presenza diretta in trentatré paesi, peraltro con un ruolo centrale nel progetto Blue&Raman, in via di realizzazione, che collegherà l’Italia e il fronte meridionale dell’Europa all’India passando per Israele, Giordania, Arabia Saudita, Gibuti e Oman, saltando quindi completamente il vecchio passaggio del Mar Rosso, oramai pieno di pericoli.
La presenza governativa italiana è doverosa per ovvi motivi strategici. Meno quella spagnola. Viene da chiedersi se non sia arrivato il momento che il governo italiano si doti di una «Strategic Company» nazionale in grado di investire entrando nel capitale delle società che possiedono e/o gestiscono infrastrutture strategiche, non tanto e non solo sul piano militare e della sicurezza, ma per assicurare, con qualche grado di indipendenza (anche tecnologica), un futuro al paese e ai suoi cittadini. E collaborare con i partner europei e nordamericani.