Mind the gapLa mancata competitività europea è dovuta ai pochi investimenti privati

Il rapporto di Mario Draghi evidenzia il divario tra Europa, Stati Uniti e Asia in termini di spesa per sviluppo e innovazione. Sebbene la spesa europea sia aumentata negli ultimi anni, resta inferiore rispetto a quella statunitense e asiatica, con un forte ritardo nella ricerca privata. Cina e Corea del Sud, intanto, superano Bruxelles sia in investimenti sia in numero di brevetti

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Grazie a Mario Draghi e al suo rapporto, appena presentato alle istituzioni europee, il termine «competitività» è per una volta uscito dall’ambito dei convegni di imprenditori ed economisti e dagli articoli di pochi media per occupare le prime pagine. Tornerà a breve nella propria nicchia, magari assieme a «produttività»?

Possibile, soprattutto se, come sembra molto probabile, il rapporto Draghi sarà infilato nel cassetto dall’ignavia di un continente ormai abituato a pensare solo al presente, come un anziano in fondo sazio e rassegnato, ansioso solo di non vedere stravolte le proprie sicurezze.

Si spera, però, che almeno alcune analisi dell’ex presidente del Consiglio su alcuni temi specifici possano svegliare alcuni segmenti delle istituzioni e dell’economia. Per esempio le considerazioni su quello che è uno dei principali – se non il principale – driver del divario tra Europa, Stati Uniti e Cina, ovvero il declino del settore della ricerca e sviluppo, da un punto di vista quantitativo e qualitativo.

All’interno dell’Ue la spesa in ricerca è salita gradualmente, in termini nominali, ma a un ritmo nettamente inferiore che oltreoceano, tra 2012 e 2022 è aumentata di circa centoquarantotto miliardi, e in termini pro capite da cinquecentotrentasette a settecentonovantaquattro euro per abitante, mentre negli Stati Uniti è cresciuta di più del doppio, ovvero di trecentoquarantatre miliardi, ed è passata da millesettantaquattro a duemilacinquantuno euro pro capite.

Se, come sarebbe corretto fare, volessimo guardare ai dati in rapporto alle dimensioni dell’economia il confronto sarebbe leggermente meno impari, ma comunque piuttosto impietoso. L’Unione Europea, nel complesso, nel 2022 ha allocato in ricerca l’equivalente del 2,24 per cento del Pil (Prodotto interno lordo), poco più del 2,1 per cento di dieci anni prima, ma meno del 3,46 per cento americano, percentuale a sua volta nettamente cresciuta rispetto al 2,67 per cento del 2012. Ma, soprattutto, i numeri europei sono ormai superati da quelli asiatici: se il Giappone ha sempre dedicato alla ricerca molto più di noi, il 3,34 per cento del Pil secondo i dati di due anni fa, ora anche la Cina e ancora di più la Corea del Sud ci sopravanzano, quest’ultima con il 4,93 per cento allocato nel settore di ricerca e sviluppo.

Dati Eurostat

Sarebbe errato pensare che sia solo l’Italia a trascinare verso il basso i dati europei. Naturalmente nel nostro caso la spesa in ricerca in percentuale sul Pil è inferiore alla già non esaltante media europea, con un misero 1,33 per cento nel 2022, ma anche i numeri della Germania deludono, se messi a paragone con quelli americani. I tedeschi hanno investito in ricerca e sviluppo il 3,13 per cento del prodotto interno lordo, molto più di noi e anche più che lo scorso decennio, ma sempre meno di quanto, a vario titolo, hanno destinato a questo scopo negli Stati Uniti.

Dati Eurostat

A che titolo? Come sottolinea il rapporto Draghi è questo il punto. Siamo abituati a manifestazioni e slogan che parlano di quanto poco lo Stato, perlomeno in Italia, destini alla ricerca, ma se guardiamo ai numeri europei in realtà a latitare più di tutti sono i capitali privati. 

In Europa il settore pubblico spende a questo scopo quanto negli Stati Uniti, lo 0,7 per cento del Pil. Certo, lo fa male, in modo frammentato, perché sono soprattutto i singoli Stati membri a decidere l’allocazione delle risorse, che vanno in mille rivoli, e non in settori veramente dirompenti. Ma il problema principale è che siamo indietro nella ricerca privata, quella fatta dalle aziende. In Europa queste nel 2022 hanno dedicato a tale fine 190,8 miliardi di euro, cioè il 57,7 per cento di tutta la spesa in ricerca e sviluppo complessiva, mentre negli Stati Uniti sono stati spesi 462,8 miliardi, che corrispondono a più di due terzi del totale.

Nel caso dell’Ue, la crescita in dieci anni è stata di circa cinquantasette miliardi, oltreoceano di ben duecentosessantuno.

Dati Eurostat, numeri in milioni di euro e in percentuale sul Pil

Basti pensare che in questi numeri sono compresi anche quelli di colossi come Google, Microsoft e Meta, che nel campo dell’intelligenza artificiale negli ultimi tempi stanno incrementando gli investimenti di dieci-venti miliardi di dollari l’anno, molti dei quali dedicati proprio alla ricerca.

L’afflusso di denaro che giunge ai reparti di crescita e sviluppo delle imprese, provenienti in primis da se stesse, ma anche da altre fonti, ammontava nel 2022 al 2,68 per cento del Pil negli Stati Uniti, al 2,62 per cento in Giappone e solo all’1,48 per cento nell’Ue. Qui il sorpasso della Cina, avvenuto già nel 2010, è ancora più evidente, così come la grande crescita della spesa coreana, che era solo dello 0,4 per cento superiore alla nostra a inizio secolo e che oggi ci supera di ben il 2,42 per cento.

Pure in questo caso, tutti i grandi Paesi europei, inclusa la Germania, pur con le sue grandi imprese manifatturiere, fanno peggio di Usa, Giappone e Corea del Sud.

Dati Eurostat

È da sottolineare che tra l’altro negli Usa anche gli investimenti pubblici in ricerca che vanno al settore privato sono più del doppio che in Europa, 27,1 contro 11,9 miliardi di euro.  Il simbolo più evidente della perdita di centralità dell’Europa nel campo dell’innovazione è l’emergere della Cina nell’ambito delle domande globali di brevetti. Quelle cinesi hanno raggiunto nel 2022 quasi quota 1,6 milioni, più che raddoppiando in meno di dieci anni, dieci anni in cui quelle tedesche, anzi, diminuivano, così come quelle francesi, mentre le italiane crescevano di poco. Nel complesso nei tre principali Paesi Ue due anni fa ammontavano a un sesto delle domande cinesi e a meno della metà di quelle americane. I brevetti cinesi hanno cominciato a emergere anche fuori dal Paese asiatico, nel 2022 sono diventate quasi centoventidue mila le domande presentate all’estero, più di quelle tedesche. Qui il primato, con duecentosessantatre mila, è ancora americano, ma per quanto?


Dati Wipo – World Intellectual Property Organization

Non solo Cina: nel decennio tra 2012 a 2022 la crescita delle domande di brevetti indiane è stata persino maggiore di quella cinese, +209,1 per cento contro +182,1 per cento.

Dati Wipo – World Intellectual Property Organization

In proporzione, l’India, con trecentoottantatre domande per cento miliardi di Pil nel 2022, è sempre meno lontana dall’Italia, con cinquecentosedici. In testa c’è sempre la Corea del Sud, che batte anche la Cina oltre a tutti gli altri, sia quando il calcolo dei brevetti è in proporzione alla popolazione, sia quando è in relazione all’economia: settemilaottocentoventotto le domande ogni cento miliardi di Pil contro le cinquemilatrenta cinesi e le quattromiladuecento giapponesi, in calo.

Alle radici della mancata competitività europea la latitanza degli investimenti privati
Dati Wipo – World Intellectual Property Organization

Seul sta sostituendo il Sol Levante come luogo di innovazione? Ma, se guardiamo i dati in assoluto, ovviamente non può competere con la Cina come gli Stati Uniti e come potrebbe fare l’Europa, se solo superasse gli enormi limiti che, come si legge sul rapporto Draghi, la relegano a un ruolo subalterno. Non saranno solo le scelte politiche degli Stati o di Bruxelles a essere cruciali, ma, come si è visto, anche e forse soprattutto quelle delle imprese e dei mercati dei capitali. Tuttavia, per i governi non ci saranno alibi: le aziende e i fondi di investimento rispondono a loro volta anche agli stimoli e agli incentivi che le leggi degli esecutivi generano.

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