RæstLo skerpikjøt e il gusto delle Fær Øer

In queste isole la natura è incontaminata e lo sono anche alcune tradizioni gastronomiche, come la pratica di fermentazione ed essiccazione all’aria della carne di pecora nelle tradizionali hjallur

Foto di Maria Vittoria Caporale

C’è il concetto di gusto – uno dei cinque sensi che dipende dalla percezione di dolce, acido, salato, amaro e umami, c’è quello di sapore – la percezione multisensoriale che arriva dalla sinergia tra gusto e olfatto, e poi, al largo delle coste settentrionali dell’Europa, tra il Mare di Norvegia e il Nord dell’oceano Atlantico, a metà strada tra l’Islanda e la Norvegia, si viene a conoscenza del ræst (in lingua locale significa fermentato), che è un’unica e incredibile fusione dei due. Il ræst fa riferimento alla pratica locale di conservazione degli alimenti, è un termine faroese che riflette un gusto unico e pungente conferito dalla stagionatura all’aperto di carne e pesce.

Le Fær Øer sono diciotto isole modellate dall’attività vulcanica e dai ghiacciai che si trovano nell’Oceano Atlantico tra Norvegia e Islanda; sono state controllate per secoli dalla Norvegia e nel 1814 sono entrate a far parte del Regno di Danimarca da cui hanno ottenuto l’autogoverno nel 1948. Sono incontaminate, inesplorate – seppur facilmente raggiungibili in aereo da Copenaghen – custodi di bellezze naturalistiche e sono anche una delle nazioni leader al mondo nella produzione di energia sostenibile: oggi il cinquanta per cento del loro consumo energetico proviene da fonti rinnovabili, ma l’obiettivo è quello di usare esclusivamente energie rinnovabili entro il 2030.

Qui abitano circa cinquantamila persone, un numero nettamente inferiore alle pecore che le abitano e che sono circa settantamila, grandi protagoniste non solo del paesaggio, ma anche delle tavole faroesi.

Su queste isole si scopre che le distese verdi a perdita d’occhio esistono davvero, così come le scogliere selvagge che precipitano nell’oceano, la vita veramente vissuta a ritmi naturali – dove il silenzio perfetto è disturbato dai soli suoni nella natura – e che i villaggi con le casette simili a quelle delle fiabe sono le uniche che esistono in questo universo che sembra quasi parallelo. Non si può fare a meno di notare subito che a fianco di quasi ogni casa ce n’è una più piccola, in legno.

L’hjallur può essere definita come la versione locale della dispensa: si tratta di una sorta di capanno dove la circolazione dell’aria è garantita tutto l’anno, utilizzata per l’essiccazione e la conservazione degli alimenti, principalmente carne e pesce. Metodo di conservazione prima della moderna refrigerazione, che sfrutta una risorsa che sulle isole certamente non manca (i freddi venti oceanici), è oggi parte del patrimonio culturale locale e parte integrante della gastronomia per la produzione di alcune specialità e prelibatezze, come quelle che riguardano la carne di pecora.

Le pecore sono le creature numericamente più presenti sulle Isole, e hanno da sempre ricoperto un ruolo chiave nella vita degli abitanti umani. In passato la pastorizia ovina rappresentava la sopravvivenza, ogni parte della pecora veniva utilizzata al massimo: dalla lana per gli indumenti, la carne, il sangue e le interiora per il sostentamento, e lo scheletro per oggetti di uso quotidiano.

Oggi, sebbene le pecore non rappresentino l’unica fonte di sopravvivenza, questa eredità culturale continua a essere profondamente radicata nella comunità faroese. Viene rispettata e con cura preservata per le generazioni future, come accade a Selatrað, un villaggio sulla costa occidentale dell’isola faroese di Eysturoy nel comune di Sjóvar.

Qui, da duecento anni una famiglia si occupa della pastorizia delle pecore – nelle Fær Øer sono circa quattrocento le fattorie che si occupano di questa attività, il cinquanta per cento è affittato dal governo e il restante è di proprietà privata – e da sei generazioni si prende cura di questa terra, che è casa e pascolo per circa centoquaranta pecore. Le pecore sulle Isole vivono totalmente allo stato brado – motivo per il quale non vengono prodotti formaggi, perché risulta impossibile la loro mungitura – ricevendo cure mediche, assistenza e una piccola parte di nutrimento dalla fattoria.

Quello che colpisce è come, nonostante la pastorizia delle pecore non rappresenti il lavoro principale per nessun componente della famiglia, questa attività ne plasmi la vita quotidiana – strettamente intrecciata ai ritmi del calendario ovino – e costituisca un vero e proprio stile di vita.

La pecora è considerata ancora oggi una risorsa alimentare fondamentale, e tutti gli anni, a ottobre, ha luogo un vero e proprio rito, quello della macellazione, che dura circa una settimana e a cui partecipa tutta la famiglia, insieme ad amici, vicini e chiunque decida di dare una mano in questa attività, ricompensato poi con carne di pecora. Mentre i componenti di sesso maschile – a partire dai bambini – si occupano della macellazione, le donne si dedicano alla cucina e alla preparazione di piatti tradizionali faroesi con i prodotti della fattoria.

I capi macellati sono circa cento ogni anno e servono per autoconsumo, per la vendita agli abitanti del villaggio e di quelli limitrofi e, in questo caso, al ristorante Ræst – uno dei due progetti satelliti di Koks,  che propongono una nuova cucina nordica legata all’uso di materie prime locali e tecniche ancestrali unite a quelle moderne – che ha scelto proprio questa carne per le sue caratteristiche durante una degustazione alla cieca.

Torna quindi il termine ræst che esplode in una cucina domestica di un’abitazione del 1600 nel centro di Tórshavn, e nel menu dello chef Sebastián Jiménez, messicano, che qui si impegna a valorizzare l’artigianato della fermentazione, l’utilizzo e la presentazione delle tradizioni faroesi, antiche tecniche di cottura combinate alle tendenze gastronomiche attuali, ingredienti internazionali, e ispirazioni dal Sud America.

Il simbolo di Ræst è lo skerpikjøt di pecora, il cui disegno troneggia sulla parete della sala principale del ristorante. Qui quello prodotto a Selatrað è servito sopra un bignè con il formaggio di Mikladalur, il più grande dei quattro villaggi dell’isola di Kalsoy, nel Nord delle Isole, nel comune di Klaksvík.

Lo skerpikjøt racchiude quindi tutto il significato del termine ræst. È il terzo stadio – dopo visnaður e ræstur – della carne di montone (zampe posteriori e sella) che, a partire da ottobre, è fermentata prima ed essiccata poi nell’hjallur, al vento, per un periodo di tempo che va dai cinque ai nove mesi, seguito da una fase finale, turrer, che può, per azione del freddo, eliminare l’odore forte e pungente. Lo skerpikjøt una volta pronto è consumato anche quotidianamente – soprattutto da chi lo produce e lo ha sempre disponibile – con il drýlur, un pane tradizionale non lievitato e, a piacere, anche formaggio.

Un gusto e un sapore che danno voce a un preciso luogo, un preciso ambiente, precise condizioni climatiche e lunghe, attente forme di conservazione e fermentazione preservate da un fattore umano che fa tutta la differenza e che non potrebbe esistere, così come non potrebbe esistere questo patrimonio culturale e gustativo, lontano da questi forti venti, da queste distese verdi a perdita d’occhio, da questi ritmi vitali così naturali.

Lo skerpikjøt non è poi così lontano dal culatello di Zibello e dal Parmigiano Reggiano Dop. Cambiano le modalità, i luoghi, gli addendi e il risultato, ma la formula è sempre quella, così come la magia.

Tutte le fotografie sono di Maria Vittoria Caporale

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