La prima influencerLa mostra che indaga l’impatto di Marina Abramović sul corpo sociale

A Bergamo, negli spazi del nuovo hub culturale Gres Art 671, “Between breath and fire” riflette sui temi dominanti della ricerca della performer di Belgrado: il respiro, il corpo, la relazione con l’altro, la morte

Seven Deaths (Courtesy of Lisson Gallery and The Marina Abramović Archives)

Sorge nel cuore della città di Bergamo Gres art 671, il nuovo spazio espositivo nato da un ambizioso progetto di rigenerazione urbana. Si tratta di un’area industriale di circa tremila metri quadri, che – come altri luoghi sottratti alla forza produttiva – ancora risuona della manodopera, del lavoro degli operai, del clangore dei macchinari. Un’eredità che attraversa significativamente i territori italiani e che racconta di un secolo, il Novecento, in cui la cieca, ottimistica fiducia nel progresso industriale, nel congedo dalla terra, dall’aratro, dalle fatiche contadine andava di pari passo con le lotte sindacali, gli scioperi, i cortei, i picchetti davanti all’ingresso. 

Un secolo di accelerazioni confuse, che è iniziato e altrettanto rapidamente è finito, spazzato via dal turbine della globalizzazione del nuovo millennio. Le tracce di questo recente passato naturalmente ancora comprimono le periferie e le porte della città, i suoi complessi urbani, quasi fossero rovine di un’epoca di guerra. Ecco perché è importante preservarle, ricordarle. Le sue pareti laminate in cemento sono il contorno vibratile in cui si svolgeranno eventi, concerti, mostre, esperimenti di socializzazione. 

ph Paolo Biava

Gli architetti che hanno lavorato alla riqualificazione dell’area hanno insistito sui chiaroscuri concessi dalla luce naturale che attraversa diametralmente le sale, un’area esterna che funge da agorà e aumenta la possibilità di scambi, conoscenze, dibattiti e distorce la dimensione industriale votata solo all’automatizzazione del lavoro. Anche la demolizione di certe tettoie ha liberato il suolo calpestabile e ha rivelato la presenza di antiche pavimentazioni: in gres, in pietra, in cemento, vecchie rotaie per lo spostamento di carrelli. Presente e passato si incontrano, transitano insieme. 

La facciata dell’edificio è stata rivestita di piastrelle di gres color ruggine come i tubi della sua trascorsa identità, i quali, tagliati in sezioni differenti, si trasformano in contenitori e accolgono piante e fiori. È stato costruito anche un piccolo giardino e sette silos alti dieci metri, disegnati da Mario Nanni, sono stati installati all’ingresso. Si potrebbe definire un connubio vivente, a maggior ragione perché interesserà l’immenso lavoro performativo di Marina Abramović. 

Dozing Consciousness © Marina Abramovic (Courtesy of Lisson Gallery and the Marina Abramovic Archives)

Al giorno d’oggi la performance restituisce la dinamicità della realtà mutevole, complessa e contraddittoria nella quale viviamo. La plasticità dei dipinti a questo non si addice e neanche la fissità di una trasposizione teatrale. Per quanto sperimentali, questi veicoli espressivi finiscono sempre a esigere una fruizione passiva. Le performance, invece, sono dei veri e propri contenitori cavi, del quadro rappresentano solo la cornice: lo spettatore può e deve trovarci quello che vuole. Sembrano ricavate da pure impressioni dell’inconscio. Dal fuori, non sono che contorsioni, movimenti e respiri del corpo.

Se presentano una narrazione è quasi sempre soggettiva. Per questo motivo non ha alcun senso intervistare un performer o indurlo a spiegare le ragioni del suo lavoro. Non saprà che cosa dire, tanto irrazionale è il processo che lo porta a diventare un interprete vivente di ciò che vede accadere dentro e fuori di sé. Marina Abramović lo aveva capito diverso tempo fa. Anzi, è stata la pioniera di questo movimento lontanissimo dai soliti codici, tanto che a lungo non si sapeva come definirla. Non era un’attrice, ma neanche solo e genericamente un’artista. Un’artista che fa cosa, poi? Non vi erano opere a sostegno di questa tesi. E un’artista, di solito, produce e dà vita ad oggetti più o meno concreti. Alla fine si è optato per il termine “figura”, anzi, ormai l’aggettivo che ricorre sul web è “influente”. Marina Abramović è influente.

ph. Adicorbetta

Essendo che questo secolo ha abusato della parola, di solito anglicizzandola, volgendola in “influencer”, diffondendola dappertutto, distorcendone il significato, rendendolo spesso il sinonimo di qualcosa che ha a che vedere solo con i consumi, con la loro estensione, è interessante domandarsi in che modo Marina Abramović ha influenzato il corpo sociale. La mostra Between breath and fire, curata da Karol Winiarczyk e visitabile fino al 16 febbraio, racchiude in potenza la risposta a questo quesito. Basta riflettere sui temi dominanti della ricerca di Abramović: il respiro, il corpo, la relazione con l’altro, la morte. 

Trenta dei suoi lavori più e meno celebri, tra cui la sua esibizione del 1975, durante la quale, dopo essersi incisa una stella a cinque punte sull’addome, si era sdraiata a pancia in giù su una serie di blocchi di ghiaccio, con una stufa puntata a pochi millimetri dal suo stomaco. O i suoi feroci colpi di spazzola di Art must be beautiful, the artist must be beautiful

Seven Deaths (Courtesy of Lisson Gallery and The Marina Abramović Archives. Photography by Todd-White Art Photography)

Probabilmente ha abituato il pubblico alla violenza della messa in scena, talvolta intimidendolo, più spesso forzandolo a mostrare i suoi lati più arcaici, quasi pavloviani, atteggiamenti tipici della massa informe e disordinata, primitiva: l’hanno assalita durante il corso della sua performance di inerme immobilità e così ha potuto dimostrare gli istinti distruttivi latenti diretti sul corpo di qualcuno che non può difendersi; lo ha indotto a intervenire in sua difesa, provando l’esatto contrario; lo ha sollecitato a ballare, a sua insaputa, a muoversi sulle note di una musica magnetica in Mambo a Marienbad. 

Le varie esplorazioni del respiro sono, in un certo senso, speculari ai comportamenti e alle reazioni umane che ha voluto indagare altrove: quasi il respiro rispecchiasse e contenesse in se stesso tutte le manifestazioni della vita empirica, il corrispettivo di un’esistenza in potenza che si esprime in inspirazioni ed espirazioni, interrotte o accelerate, ansimanti o ritmiche. Una visione del mondo orientale che ha prevenuto, forse influito sull’inedito interesse tutto europeo nei confronti delle pratiche religioni indiane. Incredibile a dirsi, ma il percorso espositivo prevede anche un’installazione cinematografica chiamata Seven deaths e dedicata a Maria Callas. 

Proprio adesso che alla cantante lirica è stato dedicato il film di Pablo Larraín in concorso al festival di Venezia. Forse, quando parliamo di influenze, dovremmo ampliare i nostri riferimenti mentali e includere anche gli artisti, i poeti, i romanzieri, i saggisti che sono stati capaci di una vivida resa della realtà circostante prima ancora che noi ne fossimo avvezzi.  

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