Tra ottimismo e pessimismoL’arte è un esercizio di immaginazione, proprio come la crisi climatica

Gres art 671, nuovo hub culturale bergamasco nato dalla riqualificazione di una vecchia fabbrica, apre i battenti con una mostra immersiva dedicata al riscaldamento globale. Lo spettatore – nonostante la gravità dell’emergenza climatica – non è incentivato a piangersi addosso, ma riveste il ruolo di performer attivo che tenta di supporre il futuro che lo attende

Ph. Michele Nastasi

Bergamo, Italia, Europa. Quella che all’apparenza sembra la tipica ex fabbrica danese o olandese riconvertita a hub culturale, in realtà è il cuore di un intervento di «rigenerazione urbana» che renderà a misura d’uomo uno dei principali poli industriali del Paese (e del Continente). Ci troviamo in via San Bernardino 141, di fianco al PalaGhiaccio e nei pressi della strada statale 671 della Val Seriana, che ha dato il nome a uno spazio di cui sentiremo parlare a lungo. 

Gres art 671, promosso su iniziativa del Gruppo Italmobiliare con Fondazione Pesenti, è il risultato di un impeccabile lavoro di riqualificazione che, come ha spiegato il sindaco Giorgio Gori al taglio del nastro, «proietta l’idea di una Bergamo europea», una Bergamo che non vuole fermarsi alla nomina – assieme a Brescia – di capitale della cultura 2023. 

Ph. Marco Pesenti

Gres art 671 è un’ex fabbrica di grès porcellanato nata tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento. Circa trent’anni fa ha interrotto la produzione, e De8_Architetti di Mauro Piantelli (progetto architettonico) e Locatelli Partners (interni) hanno poi deciso darle una nuova vita e un nuovo respiro, restituendo alla città un luogo dal potenziale immenso. È il primo, ambizioso passo del progetto Gres hub, che vuole trasformare un distretto che si estende per ben sessantamila metri quadri.  

Gres art 671, inaugurato il 7 novembre, è come se fosse una grande piazza al chiuso. È accessibile gratuitamente, ha un giardino di seicento metri quadri, un bar dove fare smart working o bere un caffè con gli amici, sette silos installati all’ingresso (disegnati dal maestro della luce Mario Nanni) e un’enorme area destinata a mostre, concerti, conferenze, laboratori e altre attività fuori dagli schemi (e dagli schermi). 

Ph. Michele Nastasi

L’esempio emblematico è la mostra Solarpunk (fino al 7 gennaio, ingresso libero) di NONE Collective, dedicata alla più grande e pervasiva emergenza della nostra epoca: il cambiamento climatico. Il riscaldamento globale di origine antropica innesca carestie, guerre, flussi migratori e crisi economiche, ma è anche una grande occasione per ripensare il nostro sistema produttivo e lavorativo in un’ottica più sostenibile e rispettosa di un Pianeta che non abbiamo mai davvero ascoltato. 

Un centro come gres art 671 non poteva che aprire i battenti con un’esposizione incentrata sul tema che più di tutti impatterà – e sta impattando – sulla vita di ogni donna e uomo, ragazza e ragazzo, bambina e bambino. Solarpunk non è solo il nome della mostra, ma prende ispirazione da un movimento artistico e letterario che ha lo scopo di immaginare – e realizzare – un futuro di sinergia tra uomo e natura. 

La mostra di NONE Collective, infatti, non spinge lo spettatore a piangersi addosso dinanzi a un’emergenza sempre più grave. Il visitatore è parte attiva, un performer all’interno di un esercizio che Gregorio Comandini, fondatore dello studio d’arte romano assieme a Saverio Villirillo e Mauro Pace, ha definito «uno sforzo di immaginazione». 

«Noi proponiamo – continua Comandini – un approccio collettivo allineato alla filosofia solarpunk, che è un movimento basato sulle pratiche positive. La mostra è un costante esercizio su noi stessi in questa battaglia tra ottimismo e pessimismo. È un progetto che affronta un futuro che non possiamo prevedere. Possiamo avere delle intuizioni, certo, ma per il resto possiamo solo immaginarlo». 

NONE Collective, nei suoi quasi dieci anni di attività, ha danzato sui limiti dell’arte, del design e dell’innovazione, indagando – anche grazie a videoinstallazioni immersive – il rapporto tra uomo e tecnologia. In Solarpunk hanno deciso di affrontare una nuova sfida, abbracciando temi scientifici ed etici molto complessi da tramutare in arte. 

Il percorso espositivo è composto da tre installazioni immersive transmediali, realizzate con energia rinnovabile e fondate su tre grandi domande. Cosa faremmo se non ci fossero i combustibili fossili e il sole fosse l’unica fonte di energia? Se i disastri climatici fossero sempre più frequenti? Se, non potendo stare all’aperto, dovessimo fare docce solari per questioni di salute? 

Ph. Michele Nastasi

Ogni spazio cerca di fornire tre scenari e di proporre altrettante alternative, non per forza giuste e universalmente condivise. Solarpunk è una mostra che di per sé dura poco, ma convince lo spettatore a fermarsi per riflettere e vivere l’esperienza nella sua totalità. Un’esperienza che coinvolge, letteralmente, tutti i sensi. Un esempio? Quando vi avvicinerete all’installazione luminosa The bright side of the sun – composta da seicentoventicinque lampade alogene che si riflettono nei due specchi laterali – sentirete una sensazione di calore simile a quella percepita quando si prende il sole in spiaggia. Prima di entrare, infatti, vengono forniti dei (futuristici) occhiali protettivi che è consigliabile usare durante la visita. 

La prima installazione che vedrete sulla sinistra, invece, si chiama Solarium, e risponde alla domanda sulle docce solari. Per vivere al massimo l’esperienza dovrete sdraiarvi sui cuscini e osservare il soffitto, ricoperto da centinaia di tubi che si illuminano alternando colori caldi e freddi. In qualche modo ricorda la tavola usata dagli istituti dell’Onu per indicare l’aumento della temperatura globale. Qui, NONE Collective ha voluto creare una sorta di terapia luminosa «per un’umanità costretta al chiuso», immaginando uno scenario piacevole all’interno di un futuro non esattamente invitante. 

Ph. Michele Nastasi

Solarpunk si chiude poi con Disastro. Simulatore di deriva, che risponde alla questione sulla frequenza sempre maggiore degli eventi climatici estremi. L’installazione luminosa, composta da una semplice pedana nera e da un anello di luce, vuole ricordarci che alla fine siamo tutti sulla stessa barca: la crisi climatica non fa distinzioni. Certo, esistono Paesi più vulnerabili e a rischio di altri, ma in uno scenario futuro – senza un’inversione di rotta – rischia di non esserci scampo per nessuno. 

Non a caso, i protagonisti di questa installazione sono i corpi dei visitatori, che dominano la scena e condividono lo stesso spazio. Perché, in fondo, la condivisione e l’empatia non sono mai le risposte sbagliate a un problema, esattamente come la forza dell’immaginazione, che ha animato gli autori della mostra e il luogo che ha sapientemente scelto di ospitarla. 

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