I baffi importanti, lo sguardo diretto, le parole che scorrono libere e una storia da raccontare: Mario Pojer è un comunicatore nato, un personaggio che ha fatto la storia del Trentino-Alto Adige vinicolo e che c’era quando il vino ha iniziato a essere quello che oggi è. Sentire i suoi aneddoti ci ha fatto capire come è cambiato il sistema enologico e come, negli anni d’oro, le cose fossero diverse e le possibilità fossero infinite. Nemmeno allora, però, si poteva fare a meno di tanto lavoro, della giusta intuizione e del coraggio, cifra stilistica che qui tra la Valle dell’Adige e la Valle di Cembra, precisamente sulla collina di Faedo, di certo non è mai mancata.
Ma dove inizia la storia della Pojer e Sandri, l’azienda vinicola fondata nel 1975 da Mario Pojer e del compagno di viaggio Fiorentino Sandri? È lo stesso Mario a raccontarcela: «A maggio del ’77 muore Bergese, e Veronelli a novembre organizza una serata in suo onore, coinvolgendo tanti cuochi importanti al San Domenico di Imola: il cuoco del ristorante Edgardo di Milano abbina ai nostri vini un piatto che mi ricordo ancora: una ricetta di anguilla. Tutto piuttosto acido, il grasso dell’anguilla portato via dal vino, davvero buonissimo. Anguilla nel ’77, era avanguardia! È quello il momento che per me segna la partenza vera della fama della nostra azienda». Azienda che osa vitigni internazionali in territorio alto-atesino ed è abbastanza coraggiosa da esportarli: «Il primo Chardonnay italiano arrivato in America è il nostro. Eravamo giovani, svegli, cercavamo di capire che cosa succedeva nel mondo. Quando il Trentino per la prima volta in Italia autorizza lo Chardonnay, noi avevamo già lo Chardonnay in etichetta. Siamo stati i primi a promuoverlo, ma la vera svolta è arrivata grazie a un importatore, allora un personaggio di riferimento, Neil Empson, mancato proprio qualche giorno fa. Empson arriva in un locale milanese con cucina trentina, beve il nostro vino, si innamora del vino ma anche dell’etichetta che raffigura un quadro di Dürer, lo zampognaro. Lui, oltre che di vino, è anche un appassionato d’arte e un cultore proprio di Dürer. E lì abbiamo fatto bingo: lui è un importatore della Nuova Zelanda, ma lavora negli Stati Uniti e porta il nostro vino là. Era il settantasette, settantotto… e proprio in quegli anni il vitigno viene autorizzato in Trentino. Un anno dopo, noi abbiamo già in etichetta lo Chardonnay. E qui succede un’altra cosa determinante, vista adesso: veniamo presi in giro perché in etichetta scriviamo “Chardonnaj”: oggi potrei dire che era un’operazione di marketing, ma in realtà in quegli anni nessuno sapeva come si scriveva Chardonnay! Avevamo semplicemente sbagliato a scrivere, eppure per noi è stato determinante. Vendiamo molto, arrivavano gli assegni a tanti zeri, cominciamo a comprare terra e nell’ottantuno costruiamo una parte della cantina».
Certo, il mondo del vino non era esattamente come quello di oggi, e le sofisticazioni erano più comuni, come ci spiega Pojer col sorriso sotto ai baffi, ricordando certe pratiche comuni in molte cantine vicine: «Il mondo del vino negli anni ’70 era una giungla, valeva tutto. In quasi ogni paese altoatesino c’era il “zuckerhof”, che era un maso fuori dalle cantine. Arrivavano di notte i camion di zucchero, buttavano dentro i sacchi, e poi notte tempo andavano dei furgoncini piccoli, si caricavano i sacchi e si portavano in cantina. Se parli con gli anziani scopri che dentro al fienile invece delle bestie c’erano montagne di zucchero. E insieme ai furgoni con lo zucchero arrivava sempre una betoniera e sembrava che nelle cantine ci fosse sempre un cantiere in corso: c’era sempre da gettare, o da fare qualche muro. Ma in realtà nella betoniera non c’era cemento, ma zucchero». Ma questo non è il solo aneddoto che fa brillare gli occhi e apre il sorriso a questo vignaiolo altrimenti così rigoroso e schivo: «Conoscevo un personaggio che aveva fatto i soldi producendo vasche di stoccaggio nel garage di casa: nelle vecchie cantine aveva vetrificato con le piastrelle per costruire dei mega depositi – non so se ufficiali o no. E in Sicilia avevo un amico il cui reddito era dato praticamente da vasche nascoste in campagna».
Sofisticazioni a parte, che rimangono parte della storia di qualche produttore poco serio, l’avventura di Pojer e Sandri rimane una storia irripetibile in questi anni, come ammette lo stesso Pojer: «Adesso avere quella fortuna in quel poco tempo sarebbe dura. La situazione non è più la stessa. Allora quando si girava l’Italia eravamo cinque aziende fra Trentino e Alto Adige. Le cooperative non avevano penetrazione nel mercato, non c’erano i grandi nomi di oggi. Tutto quello che vediamo oggi nasce nella seconda metà degli anni ’80, dopo lo scandalo del metanolo, che è stato l’episodio che ha fatto la differenza. Negli anni prima, noi eravamo davvero un riferimento unico, venivano a vedere cosa stava succedendo in Trentino, qui eravamo davvero una piccola oasi. Venivano gli altoatesini da noi in azienda, e ci chiedevano cosa stessimo facendo e volevano capire dove mandavamo il vino. Nel resto dell’Italia si vendeva poco, perché si sapeva che i pagamenti erano ballerini, vendevamo tanto in Alto Adige, e poi tanto all’estero, dove siamo stati davvero tra i primi ad arrivare».
Oggi questa storia visionaria prosegue con il progetto Zero infinito, che Mario ama particolarmente e sul quale ha investito molto, che nasce da barbatelle di viti interspecifiche su terreni abbandonati negli anni ’50/’60 a Grumes, alla fine della Val di Cembra, a 900 metri e in piena montagna. Zero infinito perché nessun trattamento è previsto, per questo vino, a detta di Mario stesso «fragrante, dissetante, leggermente aromatico e di una grande bevibilità. Leggermente frizzante e col fondo». Da assaggiare decantato in caraffa per chi lo preferisce limpido o “agitato prima dell’uso” per chi ama la versione rustica contadina. Perché la storia ha insegnato a questa azienda che non si deve mai smettere di avere coraggio.