Dall’uva passa al passito, fino ai bianchi secchi macerati e non, lo Zibibbo ha dato prova di una versatilità tutt’altro che scontata per un vitigno così caratterizzato e riconoscibile che a prima vista potrebbe sembrare bidimensionale. Cosa gli manca, allora, per poter essere considerato un grande vitigno? Su che cosa possiamo misurarne la statura? Le variabili da considerare, ci sembra, sono due: la capacità di essere declinato territorialmente, ovvero di leggere il territorio nelle sue diversità, e il rapporto con il tempo e con l’ossigeno; due temi su cui stanno lavorando due vignaioli di talento, Francesco Ferreri a Pantelleria e Nino Barraco a Marsala.
La zonazione di Pantelleria
Lo Zibibbo, lo abbiamo visto, è un’uva che viaggia volentieri, ma in nessun luogo sta bene come a Pantelleria. Finora abbiamo considerato l’isola come un unicum, ma se la guardiamo più da vicino scopriamo che non è così. I suoi ottantatré chilometri quadrati si articolano in contradine silenziose arrampicate su collinette (cùddie) attorno a una vetta centrale, la Montagna grande, che tocca 836 metri e regala panorami straordinari.
La varietà di esposizioni e altitudini che ne deriva dà luogo a micro-terroir tra loro differenti, che influiscono soprattutto sulle epoche di maturazione: le uve coltivate vicino al mare sono più precoci (e dunque più vocate all’appassimento), mentre via via che ci si sposta verso l’interno sono più tardive.
Anche la composizione e la tessitura del terreno possono variare, sebbene la matrice sia sempre vulcanica: si va da un suolo composto di pomice leggerissima, detto localmente soki soki (in virtù della particolare posizione geografica dell’isola, il dialetto pantesco è una variante di siciliano che presenta diversi tratti influenzati dall’arabo e dal maltese, ndr) a uno più strutturato e ricco di metalli, detto «terra forte».
La combinazione di questi due fattori, giacitura e composizione del terreno, dà una serie di micro-terroir, che Francesco Ferreri, nella sua Tanca Nica, ha deciso di indagare attraverso quattro micro-vinificazioni di altrettanti appezzamenti (cru, potremmo dire, se non suonasse pomposo): dal più precoce al più tardivo sono San Marco, Bùgeber, Rukìa e Cufurà: i primi due hanno un suolo di terra forte, gli altri di soki soki. La vinificazione è uguale per tutti e vuole essere il meno «mediata» possibile: fermentazione spontanea, macerazione sulle bucce, affinamento in damigiana, imbottigliamento dopo un anno e mezzo senza solfiti aggiunti.
L’assaggio dei 2022 ha effettivamente rivelato quattro vini diversi, riconducibili a due macro-gruppi, i due più precoci e su terra forte da un lato, i due più tardivi su soki soki dall’altro. Se questi ultimi avevano un profilo dall’aromaticità più spiccata e classica (limone, cedro, litchi, fiori d’arancio) e un tratto gustativo più semplice e scorrevole, piacevolmente salato, i due precoci hanno mostrato una personalità forse maggiore: l’aromaticità è più temperata, si allontana leggermente dal vitigno per avvicinarsi a un bianco più misterioso e sfaccettato, con chiare note iodate; ma è soprattutto la bocca a sorprendere, con una tensione acido-minerale che va oltre la semplice percezione salina e allunga di molto il sorso. Bùgeber, in particolare, è parso un vino di notevole caratura.
Ma al di là delle singole percezioni, ciò che rileva è per l’appunto la capacità dello Zibibbo di interpretare, di leggere terroir diversi, e al tempo stesso emerge la tridimensionalità di Pantelleria, che sarebbe forse il caso di iniziare a pensare «territorialmente», come facciamo con gli altri luoghi del vino, ragionando cioè anche in termini di zone e sottozone. Finora lo hanno fatto solo episodicamente i vignaioli più ispirati (Marco De Bartoli con il celebre Bukkuram, Murana con Martingana e Mueggen, e pochi altri), e il lavoro metodico di Ferreri è quindi una sorta di sasso nello stagno, che c’è da augurarsi non resti isolato.
Un altro fronte interessante, detto tra parentesi, sarebbe non guardare più Pantelleria solo attraverso lo Zibibbo: l’isola ospita da secoli altri vitigni, da cui i suoi abitanti hanno sempre tratto il vino per il proprio consumo quotidiano, come il Catarratto, l’Inzolia e il Pignatello. Negli ultimi anni qualcosa si sta iniziando a muovere, ma timidamente.
Lo Zibibbo, il tempo, l’ossigeno
La prima annata dello Zibibbo di Nino Barraco è stata il 2005: vent’anni nel mondo del vino sono pochi, ma abbastanza per iniziare a guardare indietro, specie se guardare indietro non serve a specchiarsi ma aiuta a capire cosa fare domani. Certo, negli anni Barraco ha in parte cambiato modo di lavorare (è un vignaiolo che non conosce immobilismo): sempre fedele all’idea di un vino secco e che non rinunciasse alle bucce, ha prima aumentato progressivamente i tempi di macerazione (fino al 2011), per poi iniziare a ridurli, alla ricerca di vini più puri, e arrivare oggi a solo ventiquattro ore.
Sulla carta, che lo Zibibbo invecchi bene in bottiglia non è scontato per niente, soprattutto perché non brilla per acidità, caratteristica a cui spesso si ritiene sia legata la longevità di un vino: a Marsala, che per quest’uva è un territorio quasi settentrionale, ci si ritrova (dato 2022) con 4,5 g di acidità totale e 3,8 di pH, valori non proprio incoraggianti.
Ma non sempre i numeri spiegano tutto, e una 2012 e una 2015, assaggiate di recente, hanno mostrato vini tutt’altro che stanchi: con un’aromaticità diversa da quella pantesca, e più spostata su toni balsamici, fungini e di finocchietto, entrambe le bottiglie hanno rivelato una scarsa propensione all’ossidazione, e anzi una certa tendenza riduttiva (la riduzione, o meglio l’ossidoriduzione, è il fenomeno chimico opposto all’ossidazione), tendenza confermata anche da altri vignaioli e in altri territori.
Proprio questa constatazione deve aver spinto Barraco ad alzare l’asticella e testare la vinificazione ossidativa (cioè a parziale contatto con l’ossigeno all’interno della botte) dello Zibibbo, un’idea a prima vista controintuitiva, ma in realtà logica: se il vitigno reagisce poco all’ossidazione, perché non dargliene un po’ di più e portarlo, in un certo senso, ai suoi estremi?
Negli ultimi anni Barraco ha fatto, sugli ossidativi marsalesi, un lavoro poderoso di riscoperta, imparando e reinventando la lezione di Marco De Bartoli col suo Vecchio Samperi, il primo ossidativo perpetuo dell’era contemporanea: dimostrare che un grande vino ossidativo, a Marsala, si può fare senza aggiungere alcol, come accadeva prima dell’arrivo degli inglesi, in barba al disciplinare che impedisce a questi vini di chiamarsi “Marsala”. Non è il solo vignaiolo marsalese a lavorare in questa direzione (lo fanno anche Vincenzo Angileri, Pierpaolo Badalucco e i figli di De Bartoli), ma è forse, Barraco, quello che lo fa con più energia e più sperimentalismo, aprendo la strada agli ossidativi da singola annata (lui li chiama “Altogrado”) anziché perpetui e, appunto, testando vitigni mai provati prima.
Nessuno aveva fatto un ossidativo da Zibibbo (si usano, di solito, Grillo o Catarratto) e ad assaggiare in anteprima Altogrado Zibibbo 2019 (sul mercato tra almeno due anni, gli assaggi risalgono a una bella degustazione organizzata nel giugno 2024 da Tannico Wine Bar a Milano, con Nino e Alice Barraco e Cristian Carlucci, padrone di casa, a moderare, ndr) ci si chiede perché. Il vino sembra trascendere le categorie: trascende l’aromaticità del vitigno, che non monopolizza l’olfatto come succede di solito, e trascende la stessa categoria degli ossidativi, perché l’ossidazione è misurata, gestita, bilanciata dalla tendenza riduttiva dello Zibibbo. Un vino elegante e cesellato, compiutamente e sottilmente mediterraneo.
Aspettando la versione 2017, che dovrebbe uscire prima – e che sarà diversa dalla 2019, perché vinificata in botti più piccole – viene da chiedersi se non abbiamo scoperto una nuova vocazione dello Zibibbo.
Questa è la terza e ultima parte del nostro viaggio nel mondo dello Zibibbo. Trovi le puntate precedenti qui e qui.