Urge coraggioPerché dopo questa Fashion week donna possiamo essere (cautamente) ottimisti

Brand dopo brand, designer dopo designer, ecco come sono andate le sfilate della moda femminile nel capoluogo lombardo. L’evento è il riflesso di congiunture economiche complesse, ma all’orizzonte emergono soluzioni incoraggianti e alternative

Courtesy of Prada

In una conversazione privata, di quelle off the records che si tengono mentre si fuma fuori da una sfilata, un famoso giornalista ha affermato di non aver mai assistito a un momento storico parimenti sconfortante e privo di guizzi. Una situazione globale, insomma, che ha colpito duramente tutte le Fashion week sino ad ora svoltesi (quella di Parigi è appena iniziata). Le sfilate per la spring-summer 2025 (s/s 2025) appena terminate a Milano sono in effetti il riflesso di congiunture economiche difficili, di una situazione geopolitica drammatica, di vendite peggiori rispetto alle attese (o almeno così aveva affermato qualche analista fin troppo ottimista qualche anno fa) e di designer terrorizzati da un turnover velocissimo, che non lascia spazio e respiro a progetti che hanno bisogno di tempo per evolversi.

È andata così a New York, dove a essere rilevante è stato principalmente l’Alaïa di Pieter Mulier – volato al Guggenheim perché proprio nella Grande Mela, nel 1982, il fondatore Azzedine presentò la sua prima collezione – e Willy Chavarria, considerato alla tenera età di cinquantasei anni nuova speranza di un intero sistema che fa fatica a trovare una sua identità adatta al contemporaneo.

Non è andata meglio a Londra, dalla quale i grandi brand sono spesso emigrati (Alexander McQueen e Stella McCartney sfilano a Parigi da anni) o sembrano comunque in stato confusionale come il Burberry di Daniel Lee. I giovani, categoria di cui la London Fashion week si è sempre occupata molto di più delle altre sue “colleghe”, arrancano come i loro coetanei italiani, americani e francesi, con delle difficoltà in più dovute alla Brexit e ai conseguenti costi. 

Dilara Findikoglu, ad esempio, ha saltato la stagione: in un post Instagram la designer anglo-turca ha spiegato che in cantiere ci sono grandi progetti, e nel frattempo ha posato come testimonial per il brand Chrome Hearts. Nello stesso momento Caroline Rush, Ceo del British fashion council – la versione anglosassone della Camera della Moda – si è dimessa dopo quindici anni, a segnalare la necessità di un cambio di passo, al netto di un lavoro encomiabile (basterebbe citare i cinque milioni di euro che dal 2020 è riuscita a raccogliere per i brand giovani, grazie allo strumento delle raccolte fondi, gestite dalla British Fashion Council Foundation, e ad eventi come i British Fashion Awards).

A Milano ci si interroga sull’identità personale di chi indossa quei vestiti, ma anche delle maison che li producono. Le risposte sono variegate, a volte con delle riflessioni inedite, altre più problematiche. È il caso di Fendi, disegnato da Kim Jones, che manda in scena una collezione che riflette sulle origini della maison immaginata da Adele Fendi, mentre in sottofondo le voci di sua figlia Anna e di sua nipote Silvia ne ricordano la figura mitologica. 

«Le piaceva avvicinarsi il più possibile alla bellezza. Per lei la bellezza era quasi diventata, fin da bambina, uno scopo», racconta Anna, su una base musicale pensata dal compositore Max Richter (e la potenza evocativa di Max Richter si misura sulla base della colonna sonora della serie “The leftovers”, c’è chi piange, e chi mente). Il contrappunto a una tale tensione emotiva è negli abiti a colonna, con motivi Art Déco, in sete fluttuanti e impalpabili, che però non veicolano quella sensazione di leggerezza trascendente sperata.

L’artigianalità è visibile in ogni dettaglio, persino nella collaborazione con Red Wing, che realizza dei boot sulla tela del Cuoio Romano, arricchiti dalle impunture Selleria. La sensazione è che, dopo diversi anni alla guida della Maison, Jones non abbia ancora colto il lato profondamente italiano, dichiaratamente romano di Fendi, che è un brand autorevole – e d’altronde, con una sede al Palazzo della Civiltà,  architettura monumentale degli Anni 40 presente nei film di Rossellini e Fellini, non potrebbe essere diversamente – ma non serioso. 

La donna Fendi, così come è stata interpretata da Karl Lagerfeld e poi da Silvia Venturini nell’interregno prima di Kim Jones, non si prende sul serio, è figlia di un matriarcato sano, risolto, erede di quella sensualità italiana priva di sovrastrutture concettuali che invece Jones si affanna nel costruire. Questo risultato non mina la reputazione di Jones, che nella storia della moda uomo contemporanea rimane un assoluto pioniere, ma forse dovrebbe far riflettere su un’accoppiata, quella tra lui e l’abbigliamento donna della maison, che non sembra particolarmente felice, né capace di valorizzare i rispettivi talenti e le peculiarità ( quelli della maison, ma anche quelli, indubitabili, dello stesso Jones). 

Sulla pluralità delle identità e del modo nel quale l’algoritmo ne appiattisce l’ecletticità hanno invece riflettuto Miuccia Prada e Raf Simons, immaginando un “Infinite Present” – il titolo della sfilata – dove ogni uscita è una collezione a sé stante, e rappresenta le infinite personalità ed emanazioni della donna Prada, che riesce con successo a fare della sua vita, e del suo guardaroba, un’opera d’arte. Con i prezzi delle maison che ormai limitano l’acquisto al famoso un per cento, diventa quasi doveroso non solo distinguersi dalla fiumana di micro-trend che invadono il nostro feed per il tempo di una story di Instagram, ma anche divertirsi e reinventarsi. E in effetti questa sfilata è un delizioso susseguirsi di easter eggs come si definiscono nella serialità televisiva e nei videogiochi i messaggi nascosti, che rimandano a suggestioni precedenti che solo gli esperti della serie o del gioco in questione riescono a cogliere.

Courtesy of Prada

Ritornano le oxford stringate con il platform, le Mary Jane bicolor, i trompe-l’œil di cinture e colletti presentati nella s/s maschile, le metallerie usate per dare volumi inediti alle spalline del vestito floreale che ha aperto la sfilata, l’hardwear che è strumento di potere e delizia, come con le gonne a pieghe quintessenza di Prada, con una cintura attaccata al capo tramite dei ganci dal retrogusto Bdsm: il tutto si fonde con visori futuribili, occhiali anni sessanta attaccati ai foulard che sarebbero piaciuti a Peggy Guggenheim, insieme a riferimenti alla Space Age come le gonne con gli oblò che rimandano al lavoro di Pierre Cardin. Reinventarsi è possibile, anzi, per Prada sembra un dovere.

Chi ha più difficoltà con la reinvenzione è Maximilian Davis da Ferragamo, che manda in scena una collezione ispirata al balletto (e infatti in prima fila c’è l’etoile della Scala Virna Toppi) con leggings e scalda cuore, memori di quel momento nel quale Rudolph Nureyev indossava ballerine su misura del brand, così come Katherine Dunham, pioniera della black dance. I sandali Eva con il tacco scultura e le fasce in seta opaca che si arrotolano sulle gambe ricordano in effetti le ballerine delle danzatrici classiche, così come risulta coerente l’inserimento di pezzi in tessuti come il nylon di seta. I volumi massimalisti sono scenografici, ma risultano poco donanti, mentre il lavoro sulla creazione di una nuova it bag sembra ancora lontano dalla conclusione: le borse hanno spesso volumi maxi, incompatibili con le tendenze odierne (l’unica eccezione moderna a questa legge non scritta è nelle Cabas di Phoebe Philo, riduzioniste nell’appeal ma maxi nei volumi). 

Courtesy of Ferragamo

Infine, il personale contributo di Maximilian Davis alla storia di Ferragamo – il denim sfrangiato e Stone washed, che il comunicato della collezione definisce come «infuso con l’energia dei Caraibi», dei quali il nativo di Trinidad e Tobago è originario – non sembrano dialogare in maniera armonica con il resto della collezione. Il compito di Davis è in realtà improbo: lavorare in un brand che ad oggi è ancora di proprietà della famiglia fondatrice è fonte di ricchezza e agevola sicuramente lo studio delle fonti, ma può rappresentare anche un limite. I brand sono fatti per evolversi, mutare, imparare dalle proprie storie: un processo che può essere anche traumatico per chi, quella storia, l’ha vista svolgersi di fronte ai propri occhi e vorrebbe vederla ripetersi costantemente in versioni di poco difformi. 

Chi cerca un modo di dialogare con un archivio e una storia italiana tra le più complesse del nostro vasto repertorio artistico è Adrian Appiolaza, che – alla sua seconda stagione per Moschino – sublima l’ordinario. Un compito che gli riesce abbastanza facile considerato il suo passato da Loewe, e che porta una leggerezza densa al brand fondato da Franco. I capi sartoriali vengono decostruiti, i tubini neri sul davanti si trasformano sul retro in vestaglie in seta stampata, la tappezzeria si evolve tramutandosi in capospalla, i trompe-l’œil su abiti e casacche sembrano segni realizzati con i gessetti, i disegni sono quelli creati da un Franco bambino, che si traslano come graffiti sui completi. 

Courtesy of Moschino

In questo percorso a ritroso nell’archivio, il brand ha collaborato con il Trust Judy Blume, fondazione dedicata alla memoria dell’artista inglese simbolo della club culture degli anni Ottanta, che ha prestato alcuni oggetti del brand in suo possesso: una bombetta, due turbanti e una scarpa maschile, madeleine tattili che ci riconnettono alla giocosità bambinesca del fondatore. Il percorso di avvicinamento alle provocazioni di Franco Moschino, che è sempre stato recalcitrante ai dettami della moda e alle sue liturgie, è ammorbidito, nel rispetto di tempi che richiedono un approccio diverso che è come un «agile salto improvviso rispetto alla pesantezza del mondo, dimostrando che la sua gravità contiene il segreto della leggerezza» (lo insegnava Calvino nelle “Lezioni Americane”, e Appiolaza istintivamente lo ha già capito). 

Rendere l’ordinario straordinario è anche il compito che si è prefisso Matthieu Blazy da Bottega Veneta, che come il suo collega argentino, sceglie di guardare il mondo con gli occhi di un bambino, e far sedere i suoi ospiti su poltrone di Zanotta a forma di animali. E proprio il mondo animale torna nelle stampe, nelle quali proliferano pesci (sulle stole) conigli (portatrici di fortuna) e rane gioiello che si appoggiano sui colli dei vestiti, sui tacchi, sulle dita delle mani. Il viaggio fantastico di Blazy regala poesia e morbidezza alle spigolosità problematiche del power dressing degli anni ottanta, fa intenerire la sproporzione dei volumi – a sottolineare quelli di un bambino che prova a infilarsi i vestiti di un adulto, reinterpretandolo e trasformandolo in qualcos’altro. Il gessato diventa oversize, ciò che appare denim stonewashed è in realtà lana merino di grammatura tropicale, i vestiti in paillettes sono interamente in pelle. Nelle note della sfilata lo stilista ha spiegato di voler recuperare lo spaesamento giocoso, la sensazione primordiale del divertirsi con gli abiti e scoprirsi diversi, ciò che lui ha definito «il potere del wow».

Courtesy of Bottega Veneta

Un’esclamazione che viene in mente per motivi diversi, anche guardando alla collezione di Diesel pensata da Glenn Martens, che però si confronta a viso aperto con le difficoltà dell’oggi, offrendo risposte tutt’altro che rassicuranti: il creativo, che ha da poco annunciato il suo addio da Y/Project, di cui era stilista dal 2013, è in uno stato di grazia tale per il quale le voci che lo danno vicino alla direzione creativa di Margiela – brand di proprietà di OTB, lo stesso di Diesel – sembrano credibili. Una lectio magistralis sul denim, lo show si tiene su una passerella creata proprio grazie a quindicimila chilogrammi di avanzi dello stesso tessuto, per sottolineare il percorso di circolarità intrapreso dal brand di Renzo Rosso. 

I minidress sono strappati, i completi da uomo si sfilacciano, i vestiti con stampe floreali hanno colli addobbati con lunghe frange a fare da mantello. Un guardaroba per l’apocalisse o forse per un film sci-fi, considerando le lenti a contatto gialle indossate dai modelli, che li fa apparire come alieni arrivati dal futuro per redarguirci sul presente. E il presente, qui ed ora è la stagione nella quale si situa il N21 di Alessandro Dell’Acqua, che manda in scena le modelle su Born Slippy degli Underworld, colonna sonora di una certa gioventù bruciata degli anni Novanta, i cui echi riverberano nella classica accoppiata del vestito in paillette per la sera e il parka con bordo in pelliccia (un look perfetto per assistere al ritorno degli Oasis, ammesso e non concesso che i riottosi fratelli di Manchester non litighino prima). 

Nella realtà il riferimento però è agli anni Sessanta ed è arrivato al direttore creativo dalle foto di Karlheinz Weinberger che «documentavano le groupie e i loro look, denotando un’inventiva personale fantasiosa». E laddove alcuni direttori creativi fantasticano immaginando abiti e donne esistenti solo in universi paralleli, da sempre Dell’Acqua trova più stimolante confrontarsi con la realtà delle strade, una realpolitik del guardaroba nella quale è ormai maestro, traducendo quello spirito creativo su gonne a matita e anorak in vichy, abiti corti in duchesse che lasciano la schiena nuda, camicie maschili a righe con il colletto bandana, le canottiere in pizzo da arricchire con perle sovradimensionate e maxi collane.

Confrontarsi con la nostra tradizione, fortemente radicata nell’artigianalità, è il compito che si è scelto Matteo Tamburini, alla sua seconda stagione come direttore creativo di Tod’s. La collezione, “Intelligenza Artigianale”, ribalta la prospettiva contemporanea e mette al centro l’ethos del brand marchigiano di Diego Della Valle. Disegnando su una tela lasciata in eredità da Walter Chiapponi, direttore creativo che ha trasformato Tod’s in una maison vera e propria, dotata di un suo linguaggio stilistico, Tamburini collabora con l’artista Lorenzo Quinn che costruisce una passerella con due fasce in pelle che si incrociano, in un DNA artigianale, tenute da due mani, un leitmotiv nel lavoro di Quinn. 

Courtesy of Tod’s

In un ipotetico viaggio sulla costa mediterranea, Tamburini veste la sua donna con trench in cotone e in pelle dai volumi fluidi, con una palette in toni neutrali, dotata dell’elegante nonchalance che ci si aspetta da Tod’s, rinfrescata da un vento di novità che porta con sé la sofisticatezza del Bottega Veneta di Blazy, da dove Tamburini arriva. Un labor limae che si percepisce nel ripensamento dei grandi classici, come il Gommino che riemerge quasi punk, con una sfilza di anelli a risaltare sul collo del piede, mentre le borse a secchiello sono in realtà trapezoidali, in pelle lucida oppure con barrette in metallo, a ricordare una versione migliorata dei secchielli estivi in paglia. 

Rinfrescare un’eredità pesante, immergendosi in un viaggio immaginario del quale non si conosce la destinazione è anche il lavoro che da diverse stagioni è chiamato a fare Marco De Vincenzo, in forze da Etro. Sempre diretto verso il bacino del Mediterraneo, i colori esplodono in maniera elettrica, si mescolano, dalle loro eruzioni emergono gioielli che si tramutano in orecchini blu Klein dai volumi sovradimensionati o perline che decorano le borse vela con manico in bambù (arte, quella degli accessori, nella quale Marco De Vincenzo, a differenza di molti suoi colleghi, è maestro, avendo sviluppato una solida esperienza in merito negli anni di Fendi). Il risultato è lisergico, con gonne stampate, pantaloni a zampa e jacquard che sembrano sotto l’effetto del Latte + di Alex e dei suoi sodali in Arancia Meccanica. Una sensazione amplificata dal live di Daniela Pes, artista sarda che si è esibita in una performance ad hoc durante la sfilata, magnificando una femminilità, quella della donna Etro irrequieta – e d’altronde, di questi tempi, è difficile mantenere un equilibrio – ma lucida nonostante tutto.

A dimostrare invece che non è possibile ridurre una identità a un singolo elemento, che, come sostiene la signora Prada, ma anche Walt Whitman prima di lei, gli esseri umani contengono moltitudini, è Simone Bellotti, direttore creativo di Bally, che alla sua terza stagione per il brand sta dando prova di essere uno dei nuovi nomi più autorevoli della Fashion week milanese. Il lombardo, nominato alla direzione del brand svizzero dopo una lunga carriera passata nelle retrovie (da AF Vandervost, Gianfranco Ferré, Dolce&Gabbana, Bottega Veneta e poi sedici anni da Gucci, con Frida Giannini e Alessandro Michele) riesce a smarcare la maison da oltre centosettanta anni di storia – riassumibili in un generico afflato verso il lusso estremo – regalandogli una nuova identità.

Courtesy of Bally

Questo però non vuol dire dimenticarne le origini, ma invece farle deflagrare in passerella, mettendo sotto la lente del microscopio collettivo frammenti di identità nazionale che ad uno sguardo distratto erano sfuggiti. Se nelle precedenti collezioni a essere il centro della discussione sono stati gli accoliti della comunità che si riuniva sul Monte Verità, e poi il folclore svizzero del Capodanno elvetico del 1600, per la prossima s/s 2025 Bellotti si posiziona a Zurigo, dove avevano trovato casa gli esponenti locali del movimento Dada. Il pezzo dal quale tutto si origina è la tunica in acciaio del poeta Hugo Ball, che in passerella ispira silhouette avvolgenti, esagerate ma mai prive di contatto con la realtà, insieme a gonne a pieghe a campana che richiamano la flora primaverile in montagna. 

La forza di Bellotti non è solo nel suo approccio filologico a un paese che abbiamo troppo velocemente trasformato in stereotipo, ma anche nel suo passato da Gucci, che gli regala un’ironia capace di stemperare i toni, con i manici delle borse che prendono la forma di un calzascarpe martellato decorato da ghiande e funghi ( nelle stagioni precedenti a decorare gli accessori c’era una campanella, rimando ai pascoli nei quali si stanziano, nell’immaginazione collettiva, dei rilassati bovini). 

Non solo di esperienza lavorativa è però fatto il talento di Bellotti, quanto della sua singolare capacità di iniettare nel collettivo immaginario di Bally il suo personale vissuto di club kid, amante della musica e dei luoghi nei quali gli accoliti del genere si raccolgono per ascoltarla insieme, vestiti come si conviene. Le brogue Derby e le Mary Jane sono tempestate di borchie dal retrogusto eighties, i sandali hanno aculei punk, i volumi delle giacche cropped e dei pantaloni a vita alta ricordano la New York di Robert Mapplethorpe degli anni Ottanta. Da questo calderone peculiare di suggestioni, nomi cognomi e città, nasce un brand nuovo, che seppur svizzero, non appare assolutamente neutrale quando si tratta di prendere posizione sulla contemporaneità. 

Courtesy of Gucci

Il confronto con la contemporaneità è invece un problema per Sabato De Sarno da Gucci, che ha mandato in scena in Triennale la sua collezione più riuscita sino ad oggi. I vestiti con i profondi scoli laterali eredi dell’estetica di Tom Ford, i cappotti over con strascico così come i vestiti verde very Brat, il Foulard flora annodato sul capo così come lo portava Jackie O., sono obiettivamente piacevoli allo sguardo. Nello stesso modo, le borse e gli accessori appaiono preziosi: la Gucci Bamboo 1947 è frutto di un progetto di ripensamento ad hoc, effettuato da artisti giapponesi, e mira proprio a celebrare i sessant’anni di Gucci nel Paese, mentre il morsetto si appoggia su creepers, ballerine e stivali dalle potenti vibrazioni sixties

Ciononostante, il rispetto di certi canoni di piacevolezza estetica dell’Occidente e una qualità artigianale indubbia non bastano quando si deve giustificare certi prezzi (che sono quelli che ormai hanno tutte le grande maison, ossessionate dall’un per cento degli ultraricchi e incuranti dei clienti aspirazionali, ormai tagliati fuori da ogni discorso in merito). Ai vestiti, nella loro forma più alta, non si chiede solo di rispondere a una funzione pratica, proteggerci dagli elementi climatici, o di farci sentire “alla moda”, fisicamente piacenti, ma di diventare un’estensione visibile della nostra personalità: di trasformarci nella versione migliorata di noi stessi. Di raccontare, senza che si abbia il bisogno di aprire bocca, chi siamo, che musica ascoltiamo, che libri leggiamo, a quale religione pagana siamo votati: uno strumento che servirà poi per riconoscerci, e riconoscere gli altri come noi, unendoci in una comunità guidata dagli stessi ideali. 

Un rapporto che funziona in ambo i sensi: se certe controculture si sono formate autonomamente e poi la moda ha capitalizzato su quell’estetica nata nelle strade (i Mod, i Teddy Boys, i raver degli anni Novanta), in alcuni casi è stata la moda a creare guardaroba ai quali corrispondevano valori precisi, dando origine a delle comunità di persone che attraverso i vestiti di un preciso designer – indossati religiosamente in total look – si riconoscevano. E da Ann Demeulemeester a Martin Margiela la lista è lunghissima. 

Al netto di un mercato totalmente diverso da quello degli anni Novanta e di un compito, quello di De Sarno, che è degno delle fatiche di Ercole (e in questo senso risultano violente e ipocrite le critiche feroci che una certa stampa anglofona gli ha ripetutamente indirizzato) della donna Gucci ad oggi, sappiamo troppo poco per poterci rivedere in lei, o volerne diventare amiche: l’amore per i tramonti e per le voci al femminile della musica italiana sono un elemento ultra-pop divertente ma nessuna relazione amicale o sentimentale di successo è mai nata esclusivamente su queste basi. Non è di per sé un problema che De Sarno si rifiuti di dare dei significati o attribuire storie ai vestiti che crea. In fondo, molte storie di successo sono nate prive di dietrologie concettuali a volte posticce. Purtroppo Gucci è però un brand diverso dai Loro Piana e dai The Row del quiet luxury (sia in termini etici, sia estetici, ma soprattutto dal punto di vista economico), e al brand e al suo direttore creativo toccherà farci i conti. 

Chi – con una pressione e dei volumi di vendita totalmente diversi – sembra averlo capito, è il giovane Stefano Gallici, alla guida di Ann Demeulemeester. Il brand sfilerà tra qualche giorno a Parigi, ma la Fashion week milanese è stata l’occasione per organizzare un cocktail all’interno della boutique Antonioli (Claudio Antonioli ha acquistato il brand nel 2020). All’interno del multibrand è infatti nato un corner dedicato esclusivamente al marchio, un unicum fino ad ora in Italia, a testimonianza di vendite che denotano un andamento positivo. Per l’occasione, con il direttore creativo a dettare il ritmo, letteralmente, dalla postazione da dj, sono confluiti nello store sui Navigli giovanissimi adepti al culto di Ann Demeulemeester, che osservavano strettamente la religione del total black, dotati di mullet d’ordinanza, mescolando la nostalgia che accomuna ogni giovane adulto che crede di esser nato nella decade sbagliata a un’interpretazione personale del brand di una dei “sei di Anversa”. 

Un esercito di adepti uniti da un guardaroba, dalla giovanissima età e dal desiderio di incontrarsi, riconoscersi più che connettersi, che non si vedeva nella borghese Milano da diverso tempo. E se il momento, come diceva quel giornalista dell’inizio, è indubbiamente difficile, la settimana della moda italiana ha dimostrato che esistono, lontano dalle solite rotte, delle possibili soluzioni. Bisognerà solo avere il coraggio di farvi ricorso. Anche perché, a questo presente opaco, è obbligatorio trovare un’alternativa. O vestirci come se ci fosse. 

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