Se non avete ancora ascoltato la nuova puntata de “La teoria della moda”, il podcast di Giuliana Matarrese per Linkiesta Etc dedicato al fashion system, cliccate qui.
Un anno, il 2023, che a guardarlo tra cinquant’anni in qualità di appassionati di storia del costume e della moda, forse, non apparirà neanche troppo rilevante: in effetti sono stati 365 giorni di passaggio, nel senso di sinonimo di un momento di transizione ben più ampio. A voler però andare nello specifico, ci sono stati diversi avvenimenti che li hanno caratterizzati, e di alcuni di loro parleremo anche in futuro. Benvenuti alla seconda parte della lista delle storie più rilevanti del 2023 nel fashion system, in ordine rigorosamente sparso.
La moda italiana
Dalla M di Magliano alla Q di Quira, passando per la S di Setchu: la moda nata o progettata in Italia c’è, ed è rilevante anche al di fuori dei confini italiani. Non è chi scrive a dirlo, ma il LMVH Prize, il premio dedicato ai nuovi nomi del conglomerato francese. Tutti e tre i nomi citati sono arrivati alla finale a giugno, sancendo già un primato storico, visto che l’unico brand italiano mai arrivato alla fase ultima della selezione è stato quello di Gabriele Colangelo nel 2014. A vincere il riconoscimento maggiore è stato Setchu, brand di Satoshi Kuwata, giapponese di nascita, ma con una produzione saldamente ancorata all’Italia.
Luca Magliano, bolognese classe 1987, si è invece aggiudicato il Karl Lagerfeld Prize e sfilerà a gennaio a Pitti come guest designer. In palio c’erano riconoscimenti economici consistenti, abbinati ad un anno di counselling da parte della struttura di LVMH. E se, in generale, il comparto moda e i settori correlati, in Italia, hanno generato lo scorso anno la quota monstre di 96,6 miliardi di euro (+16 per cento rispetto al 2021) per il futuro e il ricambio generazionale c’è da scommettere anche sui loro nomi, che hanno beneficiato dell’osservazione internazionale che concede questa competizione e che però sono solo una parte della nuova generazione di talenti partorita dal nostro paese.
Alessandro Vigilante, di recente nominato direttore creativo da Rochas, ma anche Salvo Rizza con il suo Des Phemmes amato dalle celeb americane e che ha da poco siglato un nuovo accordo di licenza e produzione con Olmar and Mirta, storico partner di di Rick Owens, così come lo Ssheena di Sabrina Mandelli, Federico Cina e il duo anglo-italiano di Jordan Luca, Andreadamo e CHB di Christian Boaro, Francesco Murano e Niccolò Pasqualetti solo per citarne alcuni. Un arcobaleno variegato di interpretazione del presente e rielaborazione del passato, che richiede a gran voce la visibilità che merita. E che si spera l’editoria e i ceo del Belpaese riconosceranno loro, andando oltre la solita, tediosa, esterofilia dalla quale siamo afflitti.
Quiet luxury
Se dovessimo citare l’espressione che è andata più di moda quest’anno sarebbe quiet luxury, a significare quella tendenza, adottata dai super ricchi e ambita da tutti gli altri, a indossare capi classici, mai troppo appariscenti, il cui brand non è mai urlato, ma neanche visibile all’occhio. Un approccio che è simile a un codice segreto tra appartenenti ad un gruppo d’élite, stanchi di maxi loghi e simili volgari proclami di benessere, nella certezza che gli altri milionari o nerd della Silicon Valley siano capaci di codificarne da lontano gli stilemi e quindi riconoscere nell’altro un proprio pari.
If you know you know, come dicono gli anglofoni. Una tendenza nata sugli schermi televisivi con quel cappellino da baseball in cashmere Loro Piana da quattrocentonovanta euro, indossato da Roy Kendall in Succession, la saga dei ricchi per eccellenza e che poi è divenuta globale, costruendo un caso di studio intorno al brand. Persino l’attore che interpretava Roy Kendall, Jeremy Strong, cooptato dal brand laniero d’eccellenza come friend of the house, una dicitura soft che indica un rapporto di collaborazione, sembra esser stato talmente convinto della proposizione stilistica del brand che anche nella sua vita reale ha adottato il guardaroba del suo personaggio.
E di billionaire chic si è parlato anche in occasione dell’apparizione in corte di Gwyneth Paltrow (ma anche di court-core, secondo il New York Times, come se di core ce ne servissero altri): il caso Sanderson vs Paltrow fa riferimento a un incidente sciistico del 2016 a Park City quando l’attrice e guru del benessere con la piattaforma Goop ha avuto uno scontro sulle piste con un altro sciatore, che avendo sofferto di diverse costole rotte quando l’attrice gli è caduta addosso, richiedeva un risarcimento danni. La Paltrow ha risposto con una contro denuncia, con la richiesta simbolica di un dollaro di risarcimento e con una presenza in tribunale di outfit che sottolineavano sottilmente la sua distanza – economica e sociale – dal resto del mondo. Il maglione crema a collo alto morbido di Loro Piana, il capotto verde salvia di The row, altro brand sinonimo del quiet luxury, con prezzi impossibili per chiunque altro, ma anche la gioielleria discreta del suo brand e gli scarponcini di Prada: tutti i capi sono stati esaminati più a lungo del caso, che comunque ha visto i giudici decretarla come non colpevole. Su Instagram e TikTok impazza The Gstaad Guy, influencer che fa la parodia dell’un per cento della popolazione mondiale, appunto gli ultra ricchi, che vivono in un costante nomadismo di lusso, tra Gstaad e Courchevel, con la loro collezione di Loro’s.
D’altronde, optare per pezzi classici dallo stile senza tempo è la risposta più comune che si può trovare a tempi difficili come questi, che appiattiscono la creatività in favore di soluzioni più rassicuranti, laddove di sicurezze non sembrano essercene più: è una strada d’altronde che molti brand stanno provando ad imboccare, senza avere però l’heritage o il dna di Loro Piana, Brunello Cucinelli o The Row, che con questa attitudine ci sono nati. E la tendenza forse, è al suo breaking point. In un recente articolo del New York Magazine, “How Loro Piana became Silicon’s Valley favorite flex”, parlando con personal stylist, buyer e proprietari di negozi, si evidenzia come l’aria stia cambiando.
Da un lato i milionari della Valley della tecnologia non fanno più segreto della loro grande collezione di Loro Piana: Chamath Palihapitiya, social venture capitalist americano e canadese nato in Sri Lanka, tra i primi dirigenti di Facebook, sfoggia su Twitter la sua collezione di maglioni cammello, mentre dall’altra parte il brand fa apparire nel suo store una versione del cappello di Roy Kendall fornita di logo ton sur ton (che è sempre stato nella sua collezione, almeno secondo quanto riportato al New York Magazine). Se il lusso diventa conclamato, e quindi comprensibile da tutti, riconoscibile tramite un logo anche da chi non riconoscerebbe altrimenti la differenza tra filati di cashmere e baby alpaca, la magia dell’esclusività è a rischio. Se il New York Magazine avrà ragione con le sue previsioni, lo scopriremo soltanto l’anno prossimo.
Walter Albini
Un’altra bella addormentata, come vengono chiamati con molta poesia i brand chiusi da anni, è stata risvegliata, e in questo caso si tratta del padre fondatore della moda italiana. Bidayat, piattaforma d’investimento, ha comprato a maggio la proprietà intellettuale e parte sostanziale degli archivi di Walter Albini, l’inventore della fashion week milanese, e il primo per il quale venne usata la parola stilista.
Il fondo, di proprietà di Rachid Mohamed Rachid, già ceo del fondo d’investimento qatarino Mayhoola ( che possiede Maison Valentino, Balmain e Pal Zileri) ha annunciato che inizierà la sua opera di riscoperta collettiva del maestro di Busto Arsizio scomparso nel 1983 a poco più di quarant’anni, impegnandosi nella promozione di mostre a lui dedicate. Ad oggi, nonostante la grande attenzione sull’argomento, non è stato ancora annunciato chi sarà il direttore (o direttrice) creativa. Per scoprine di più e non farsi trovare impreparati vi consigliamo di visitare fino ad aprile 2024 la mostra a lui dedicata allo Csac di Parma, ente di ricerca che conserva molto materiale frutto di donazioni di Marisa Curti – originale proprietaria dell’archivio – e del collaboratore di lunga data Paolo Rinaldi. Attendiamo l’anno prossimo per saperne di più.
Zara e la campagna controversa
Se nel 2022 era stato il turno di Balenciaga, nel 2023 tocca a Zara quella che possiamo definire, in linguaggio non proprio tecnico, la shitstorm. Pur non avendo assolutamente raggiunto il livello di complessità e cospirazioni della campagna degli orsetti bdsm indossati come zaini da bambini, la campagna Zara Atelier 04 The Jacket, pubblicata a inizio dicembre, è stata accusata di irridere il massacro palestinese con manichini avvolti in teli bianchi, come i sudari delle vittime di questi ultimi due mesi. Peccato che la campagna fosse ambientata tra i manichini nello studio di uno scultore e fosse stata scattata a settembre, prima dell’inizio del conflitto.
Una polemica che ha portato il mondo dei social a pubblicare su change.org una petizione per licenziare una senior designer del brand che con questo caso specifico non ha nulla a che fare, e che però due anni fa si era resa responsabile di dichiarazioni offensive e intrise di islamofobia, parlando sulla chat di Instagram con un modello palestinese. Più che il caso mediatico che ne è nato, e sembra essersi già sgonfiato dopo una settimana, è interessante e forse un po’ inquietante notare come anni di sensazionalismo mediatico, di presidenze improbabili un po’ in tutti i paesi del globo terraqueo (certo Trump, ma anche Boris Johnson nel Regno Unito o Bolsonaro in Brasile) abbiano creato un clima fertile per un sentimento comune di sospetto, favorito accuse prive di reali fondamenti verso nemici immaginari e lo abbiano fatto usando principalmente i social (d’altronde Trump è stato il primo presidente della storia bandito da Facebook).
Peccato che la realtà di oggi sia complessa, stratificata e non sempre comprensibile e digeribile al primo sguardo. E proprio così la moda lavora su livelli plurimi di significati e significanti. Quando è al suo meglio sfida il nostro occhio e le nostre convinzioni pregresse nel tentativo di trovare risposte alternative nascoste tra le rigidità assolutiste di un sì o un no. Non è il caso di Zara, che ha solo avuto un brutto tempismo e una scarsa capacità di gestire la problematica, ma è doloroso pensare che designer provocatori e sovversivi come Alexander McQueen non durerebbero due stagioni nella società della condanne a colpi di clic, che si scandalizza di tutto senza però fermarsi a riflettere mai su niente. A pensare un attimo, c’è il rischio che poi l’argomento non sia più tra i trend topic e quello non possiamo permettercelo.
Gender gap
La moda ha scoperto il gender gap. Nello specifico lo ha scoperto 1Granary, account che ha postato il 3 ottobre un’immagine piuttosto significativa di tutti i direttori creativi del gruppo Kering: maschi, bianchi e con una somiglianza fisica anche piuttosto inquietante. Il j’accuse social è arrivato dopo la dipartita di Sarah Burton da Alexander McQueen e l’arrivo in sua vece di Sean McGirr, irlandese alla corte di Jw Anderson di cui nessuno aveva mai sentito parlare sino al giorno prima. Non va meglio da LVMH dove le uniche donne direttrici creative sono Maria Grazia Chiuri da Dior, Camille Miceli da Pucci e Silvia Venturini Fendi per l’uomo di Fendi.
Il problema non nasce però con le singole direzioni creative, e non è colpa di McGirr o di Matteo Tamburini, nominato direttore creativo di Tod’s di recente: le direzioni creative vanno analizzate caso per caso e giudicate solo dopo due sfilate, mai a priori. Il problema però esiste, anche perché a fronte di una presenza forte nel mondo della moda – moltissime donne sono design director, come Chemena Kamali, nominata direttrice creativa di Chloé, una delle poche eccezioni, dopo esser stata per anni design director della donna di Saint Laurent – i ruoli apicali vanno sempre agli uomini. Secondo il WWD nel pezzo “Why are there so few female creative chiefs at the big fashion houses?” di Samantha Conti, da Kering il sessantaquattro per cento della forza lavoro è femminile: le donne sono il cinquanta per cento dei board of Directors, quarantadue per cento del comitato esecutivo e l’obiettivo è arrivare a colmare le differenze salariali entro il 2025.
L’idea stereotipata che gli uomini creino pezzi d’arte, mentre le donne si balocchino creando un guardaroba più triviale e pratico è dura a morire, così come il sotterraneo patriarcato dei ceo che scelgono loro simili per le posizioni apicali. E in qualunque caso ad oggi quell’idea risulta assurda: non c’è dell’arte anche nel liberare le donne dalle costrizioni e dalle stereotipie sociali, facendole sentire sicure di loro stesse? Dall’alba dei tempi, da Chanel che usava il jersey per permettere alle donne di giocare a tennis fino a Phoebe Philo che le ha liberate dall’idea di dover essere all’altezza dello sguardo dell’uomo, le rivoluzioni dello stile si sono accompagnate all’essenza stessa del femmineo. E forse, si spera, il 2024 sarà l’anno nel quale una protesta nata dai social inchioderà alle loro responsabilità maison e gruppi che per troppo tempo hanno finto di non vedere il problema.