“Wild God”, il nuovo album di Nick Cave and the Bad Seeds, fin dal primo istante t’investe come una cascata, piena di suoni e di energia. È “The Song of the Lake”, la canzone del lago, che ha la missione di stabilire da subito il tono dell’opera, di enunciare l’intenzione apertamente liturgica. Questa, dice con la sua musica Nick Cave, è l’opera del “Nonostante”, dedicata alla pulsione della rinascita, della ripartenza, del trovare il modo, dell’individuare l’unica strada della vita, dopo aver contemplato dolore, morte e sofferenza nelle loro dimensioni più crudeli. Eppure ricominciando a scavare fino a portare alla luce una insospettabile (disperata?) euforia, elettrizzante gioia di vivere, appunto nonostante tutto.
La storia di Nick Cave, che ormai s’allunga per lunghi decenni nei percorsi del rock, è bizzarra al punto da sembrare sconvolgente, dagli esordi venati di faulkneriana estetica dark, con quella descrizione retorica del maudit, attraverso un’evoluzione e una crescita musicale inaspettata per qualità, fino all’intrecciarsi fatale della vicenda umana con quella artistica. Si resta sbigottiti di fronte al bestiale contrappasso che ha condannato colui che voleva esplorare il lato oscuro dell’animo umano a misure di pena inconcepibili, se non cedendo all’oblio e al caos.
Nick, che oggi ha sessantasei anni, nell’ultima decade ha vissuto il peggior incubo d’ogni genitore: nel 2015 la morte del figlio quindicenne Arthur, per una caduta accidentale durante un’escursione a Brighton. Nel 2021 la scomparsa della sua ex compagna, musa e storica partner creativa, Anita Lane. Nel 2022 il suicidio a soli trentuno anni del primogenito Jethro, il figlio difficile e a lungo colpevolmente ripudiato.
Dunque una lunga immersione nell’insensata dimensione della perdita, che Cave ha sublimato progressivamente attraverso il suo strumento primario di rappresentazione: la musica («l’ultima autentica opportunità di esperienza trascendente che ci è rimasta, nel mondo secolare», nelle sue parole), sotto forma di album come lo straziante “Skeleton Tree” (2016), il giaculatorio “Ghosteen” (2019), il tetro “Carnage” (2021), lavori realizzati «con il blues intorno alla testa», come ora canta lui stesso, nel pieno di un afflato di parossismo produttivo, che gli ha visto partorire anche due documentari, colonne sonore per il cinema, un libro di memorie e la stranissima iniziativa da lui battezzata “The Red Hand Files”, una newsletter consolatoria online a cadenza settimanale, nella quale Nick risponde – improvvisandosi psicologo, stregone del self help, reverendo di una nowhere land – agli interrogativi esistenziali dei fan, venati di angosce e timori, in quello che dal suo punto di vista probabilmente ha costituito il graduale processo di riapertura verso l’esterno.
In quest’estate 2024, poi, l’apogeo di questa astrusa traiettoria: l’album dedicato al versante selvaggio del sacro, un’opera che somiglia a un febbricitante risveglio notturno dopo un sogno rivelatore, sul genere di quello che Cave racconta in “Joy”, allorché gli appare «un fantasma con scarpe da ginnastica giganti, che ride e ha la testa avvolta di stelle… un ragazzo in fiamme».
L’apparizione – insomma lo spettro del suo ragazzo morto – ha un messaggio salvifico per lui: «C’è troppo dolore, è il momento della gioia». E la sensibilità artistica di Nick recepisce l’annuncio con tutto il narcisismo che l’ha sempre animata: allora il suo umore cambia, si capovolge, Cave prende a contemplare la furia della vita, decide di lottare per l’ottimismo, un ottimismo radicale che sia l’antidoto al mondo, «in cui gridano le loro parole rabbiose sulla fine dell’amore».
Prende le mosse una metamorfosi sovraccarica di allegorie che infine diventa una raccolta di canzoni che a sua volta si propone di essere un’esperienza per chiunque l’ascolti. Perché la gioia, irresoluta e disperata, è l’umore di “Wild God”.
Le sue canzoni strappano l’oscurità – anche se dolore e morte, sono là, onnipresenti – assumendo la dimensione di una ciclica euforia trascendente – nonostante tutto, come si diceva. E la musica che Cave concepisce, insieme al solito partner in crime Warren Ellis e alla muscolare partecipazione dei Bad Seeds, attribuisce potenza a questo proposito, con un suono vasto, radicale, a tratti imponente, pieno di passaggi meditativi, capace di assumere straordinaria luminosità e spazialità. Il resto lo fanno l’intatta, smagliante espressività vocale di Cave e la sincerità dei versi che ha l’urgenza di pronunciare, come in “O Wow O Wow (How Wonderful She Is)”, melodica, struggente ballata dedicata ad Anita, al centro della quale colloca la registrazione di una loro intima conversazione telefonica in cui ridacchiano con complicità sulle proprie dissolutezze giovanili.
Il succo è che tutto ciò che abbiamo amato è passato e non si può resuscitarlo, ma la cosa da fare è andare avanti, avendo il coraggio d’ammettere che può ancora essere bellissimo. Allora subentra questa parvenza di allucinata contentezza, la voglia di muovesi e poi, anche, una commozione. Esattamente ciò che, con la sua magia, questo disco provoca in chi lo ascolti con dedizione. Infine assaporando la consapevolezza d’aver ricevuto un suggerimento prezioso.