L’arcifranceseIl rinoceronte di Catherine Deneuve e l’arte di essere più parigina dei parigini

Come spiega Stefano Montefiori in “Parigi è sempre Parigi” (Solferino), le interviste difficili all’attrice sono ormai un genere letterario per quel suo gusto di dare, sempre con il sorriso, risposte secche, o insofferenti, o volutamente poco incoraggianti. E la cosa a cui sembra tenere di più è la libertà di passeggiare per la Rive gauche senza essere scocciata dagli ammiratori

LaPresse

Pesa tre tonnellate, è fatto di ghisa, e milioni di visitatori gli passano distrattamente accanto, o al massimo lo usano come panchina, prima di mettersi in coda per vedere la Colazione sull’erba di Manet o l’Autoritratto di Van Gogh. Eppure il rinoceronte fatto fondere da Alfred Jacquemart per l’Esposizione universale di un secolo e mezzo fa è bellissimo e troneggia davanti al Museo d’Orsay, possente e pronto a scattare, dalla metà degli anni Ottanta. Tra i suoi meriti c’è quello di essere un ricordo d’infanzia di Catherine Deneuve: prima dominava il giardino vicino al liceo Jean de la Fontaine, sulla Rive droite, frequentato dalla futura attrice francese più celebre del mondo.

Poi entrambi, Catherine e il rinoceronte, si sono trasferiti e hanno fatto il grande salto verso la Rive gauche: dal 1977 l’attrice abita nella casa su due piani davanti alla chiesa di Saint-Sulpice, e l’animale di ghisa l’ha seguita poco tempo dopo, per stabilirsi a poche centinaia di metri, nel piazzale del museo. Deneuve è oggetto di un culto sconfinato, tutti vogliono sapere tutto di lei, la guardano e la fotografano appena possibile, e questo la indispone. Il rinoceronte invece è ignorato, o quasi. Nel documentario Catherine Deneuve, Rive gauche realizzato da Loïc Prigent, la telecamera riprende la divina mentre va a fare una carezza al suo amato rinoceronte. La bella è affezionata alla bestia, «con quella specie di corazza come un guerriero giapponese», imponente e pronta a reagire se stuzzicata ma gentile, «a differenza degli ippopotami, che sono aggressivi».

Poi la stessa telecamera segue Deneuve nei luoghi del cuore a Parigi: il Jardin des Plantes con la meravigliosa serra tropicale e il Gingko biloba «che resiste a tutto, anche a Hiroshima»; il vicino caffè della Moschea per prendere un tè alla menta; il mercato di boulevard Raspail; la piazza di Saint-Sulpice dove i suoi figli hanno giocato molto da bambini e la chiesa dove lei non è mai entrata, «tranne una volta per cercare il gatto, e non era neanche lì»; l’Esplanade des Invalides con le proporzioni perfette tra l’edificio, la cupola sopra la tomba di Napoleone e il prato; e naturalmente il Jardin du Luxembourg e il Café Fleurus, vicino all’entrata di rue Guynemer, secondo molti la via più bella (e costosa) di Parigi. È la Rive gauche, appunto, quella che sta a sinistra della Senna se si guarda in direzione della corrente, verso la Manica. Anche se è nata e cresciuta sulla Rive droite, Deneuve è diventata la perfetta icona di quello spirito Rive gauche che ha segnato a lungo la città, e che sta un po’ perdendo forza rispetto alla contrapposizione ormai più sentita tra l’Ovest ricco e borghese e l’Est più popolare e alla moda.

I soldi (le banche, gli uffici, le boutique di lusso) sulla Rive droite, la cultura (la Sorbona, i migliori licei, la maggioranza delle librerie e delle biblioteche, le gallerie d’arte, i cinema d’essai e le case editrici) sulla Rive gauche. Grosso modo, ha funzionato così a lungo, ma ormai sono anni che i grandi stilisti hanno aperto le loro boutique anche a Saint-Germain e che librerie storiche come La Hune, accanto al Café de Flore e ai Deux Magots, hanno invece chiuso i battenti. Tutto è più mescolato rispetto alla divisione originaria. Resta una certa idea di chic, di eleganza, associata alla Rive gauche e, sicuramente, a Catherine Deneuve.

Chi scrive l’ha incontrata nel marzo 2024, in un hotel della sua amata Rive gauche, per un’intervista pubblicata su «Io Donna». È arrivata di corsa, chiedendo se volessimo parlare in francese o in italiano, con gentilezza e praticità, prima di un «adoro l’Italia» che è suonato come una constatazione più che come un riguardo verso l’interlocutore: Deneuve non è certo donna da smancerie. L’occasione era l’uscita in Italia del film Bernadette, una commedia ispirata alla vita della moglie del presidente Jacques Chirac, all’Eliseo dal 1995 al 2007. Deneuve è stata sorridente, professionale, disponibile, ma chiaramente pronta a tagliare corto al minimo sgarro, cioè alla prima incursione nella sua vita personale. «Ormai diffido dei media: con gli smartphone, Internet, tutto è diventato spaventoso, ogni parola viene travisata. #MeToo, per esempio, è un movimento estremamente potente, e io preferiscono non parlarne più».

L’attrice che ha girato oltre cento film, molti dei quali entrati nella storia del cinema, dice di non guardarsi mai indietro, la sua straordinaria carriera non le interessa: «Non sono per niente rivolta al passato. A dire il vero, non volgo lo sguardo neanche verso il futuro, mi basta il presente, che è già abbastanza impegnativo. La carriera fa parte della mia vita, ma quando mi chiedono dei miei film passati è come se mi volessero mettere un collare e tenermi legata, obbligata a riparlare di quel tal film. Preferisco il presente, tutto qui».

Incontrare Catherine Deneuve è un’arte complicata, perché la diva dei capolavori, da Les Demoiselles de Rochefort di Demy a Belle de jour di Buñuel a L’ultimo metrò di Truffaut, passeggia tranquilla nel suo quartiere e porta a spasso il cane, ma è una persona affabile e distante allo stesso tempo. È capace di chiacchierare con semplicità con un passante, ma è anche pronta a fulminarlo se osa fotografarla; è apparentemente alla mano, ma determinata a rintuzzare le banalità. Catherine Deneuve detesta la retorica. E quindi, contro il cliché che la vorrebbe sempre inappuntabile e sofisticata, confessa di provare piacere a guidare nel traffico «perché insulto tutti, anche se con i vetri chiusi. Grido “coglione!” se l’interessato non mi sente, ma io almeno mi sono sfogata». La «sirena del Mississippi» che urla al volante. Sublime Catherine.

Le interviste difficili alla divina sono ormai quasi un genere letterario per quel suo gusto di dare, sempre con il sorriso, risposte secche, o insofferenti, o volutamente poco incoraggianti. Il maestro di questo nuovo genere, come di tanti altri, è Emmanuel Carrère, che ha raccontato il suo strano e inconcludente colloquio nel testo Come ho completamente cannato la mia intervista con Catherine Deneuve, pubblicato anni fa sul mensile «Première» (e poi in Italia da Adelphi), al posto dell’intervista stessa. Carrère ammette la sua parte di responsabilità. Era stata Deneuve a fare il suo nome, e per questo lui si era immaginato una specie di conversazione tra pari o quasi: la grande attrice discute con il grande scrittore. Quale audacia. Il format non ha funzionato.

Non che agli interlocutori più ossequiosi vada meglio. Quando Deneuve accetta di andare alla tv francese per promuovere un film (cosa che accade molto di rado), ovviamente in prima serata e con tutti gli onori, il giornalista o l’animatore di solito si rivolgono a lei con deferenza, sorridono nervosamente in cerca di approvazione mentre le rivolgono la domanda, che potrà avere risposta ma che potrebbe invece essere giudicata fuori luogo e cassata, sempre con infinita eleganza e gentilezza, in modo quindi ancora più doloroso.

(…) I francesi guardano a Catherine Deneuve con enorme affetto, e un po’ di timore reverenziale, quello dovuto a una specie di iper-parigina che dei parigini dice «non sono certo amabili, sempre a lamentarsi, sempre di cattivo umore», e non si capisce bene se lei si metta nel mucchio. In fondo, la sua immagine in patria non è così diversa rispetto a quella che abbiamo di lei in Italia. Bellissima, elegante, un po’ fredda. La Francia fatta persona. Ma, alla fine, la cosa alla quale Catherine Deneuve sembra tenere di più è la libertà. La libertà di passeggiare per la Rive gauche senza essere scocciata, di andare a salutare il rinoceronte del Museo d’Orsay senza doversi piegare al rito dei selfie che detesta «tranne quando è un bambino a chiederlo»; la libertà di rifiutare il gossip, di non farsi imprigionare nel proprio immenso passato e nel ruolo di eterno simbolo della Francia. Se la incontrate, attorno a Saint-Sulpice, non fotografatela.

Da “Parigi è sempre Parigi” (Solferino), di Stefano Montefiori, 240 pagine, 16.62 euro

 

 

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