Processo pubblicoIl caso Pelicot sta cambiando il modo in cui si parla di violenza sessuale

Le recenti manifestazioni in Francia dimostrano come il recente caso degli stupri di Mazan stia diventando emblema di un movimento globale che ribadisce l’importanza di un mutamento culturale, a partire dal linguaggio utilizzato per parlare di violenza sessuale. L’obiettivo è spostare la vergogna sull’abusatore, non più sulla vittima, e incentivare quante più donne a denunciare

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«La vergogna cambia campo» è lo slogan delle ultime manifestazioni che hanno avuto luogo sabato scorso in Francia, da Marsiglia a Parigi, da Nantes a Nizza, a sostegno di Gisèle Pelicot, la donna drogata con sonniferi dal marito che reclutava sconosciuti su internet per violentarla. Il processo, iniziato due settimane fa al tribunale di Avignone, sta creando enorme commozione in tutto il Paese.

In molti si chiedono quanti uomini sapessero cosa stava succedendo a Mazan e come mai non abbiano chiamato la polizia, nemmeno in forma anonima. E sospettano che il problema della droga e dello «stupro da appuntamento» sia molto più diffuso di quanto chiunque sappia. E se il processo, «simbolo del peggio che la violenza maschile possa fare», come ha dichiarato Anne-Cècile Mailfert, presidente dell’associazione Fondation des Femmes, a NbcNews, farà luce su una cultura della violenza e dello stupro con radici ben più profonde e tutt’altro che circoscritte alla cittadina di Provenza ai piedi del Mont Ventoux, Gisèle Pelicot sta diventando il simbolo di chi non vuole più girarsi dall’altra parte e tacere per vergogna, ma denunciare per tutelare chi verrà dopo. 

Quella di Pelicot una sfida personale ai tanti miti che circondano lo stupro e che oscurano la realtà di una società patriarcale misogina dove meno del sei per cento delle denunce di stupro viene perseguita. E la narrativa che viene adottata dai vari media internazionali nel trattare il caso assume così una rilevanza primaria.

Fin dall’inizio del processo, le varie testate francesi avevano scelto di non citare il nome della vittima, per tutelare la vita privata della stessa e dei tre figli della coppia. «Non ho nulla di cui vergognarmi», ha però detto Pelicot, chiedendo che il processo fosse aperto al pubblico. «Bisogna che la vergogna cambi lato», ha aggiunto Stéphane Babonneau, uno dei due avvocati della vittima. «Sappiamo che lo fa per gli altri, affinché ciò non accada più, affinché non sia più la vittima a vergognarsi», spiega a France Inter Amy Bah, del collettivo NousToutes, durante la manifestazione di sabato 14 settembre a Marsiglia.

Il pubblico ministero aveva difeso la richiesta di porte chiuse ricordando che i video delle violenze, ripresi dal marito, sarebbero stati «necessariamente visionati» e che «non solo la visione pubblica sarebbe risultata pericolosa ma avrebbe minato anche la dignità degli imputati». «Non deve essere uno spettacolo», aveva aggiunto la difesa.

Già prima della decisione del tribunale, Gisèle Pelicot, applaudita al suo arrivo e durante tutta la prima giornata di udienza, aveva fatto sapere di volere che il tribunale mostrasse i video completi, che ci fosse copertura mediatica totale. «Pubblicità totale, fino alla fine», aveva sottolineato. Una posizione condivisa dai tre figli della coppia, tutti parti civili.

«Molte donne non hanno le prove. Io le ho, non testimonio per me stessa ma per tutte le vittime di sottomissione chimica. Spero che il giorno in cui una donna si sveglierà al mattino senza ricordare cosa ha fatto il giorno prima penserà alla mia testimonianza», usando il termine che, secondo la giurisprudenza francese, si riferisce alla somministrazione di droghe alla vittima, aggravante della violenza sessuale, con una pena massima di venti anni di carcere.

Mercoledì 18 sono apparse per la prima volta immagini intime sugli schermi della sala Voltaire del tribunale di Avignone. La difesa ha subito provato a spostare su Pelicot la colpa, facendo leva su apparenti segni di coscienza della vittima durante le violenze. «Da quando sono arrivata qui mi sento umiliata. Sono io la vittima o i cinquanta uomini seduti dietro di me? Capisco perché le vittime non denunciano», la risposta della donna. Nelle prossime settimane, ogni volta che uno dei trentacinque coimputati (su cinquantuno) si presenterà alla sbarra contestando gli atti di stupro di cui è accusato, i video delle scene in questione girate da Dominique Pelicot, marito della donna, verranno trasmessi.

Il racconto della violenza è un tema più volte discusso, così come lo è il ruolo dell’infotainment nel trattare stupri e abusi, tanto più in un processo pubblico e dall’impatto mediatico così elevato come quello degli stupri di Mazan. Il 26 settembre, End Violence Against Women (Evaw), coalizione di individui e organizzazioni con sede nel Regno Unito che si batte per porre fine a tutte le forme di violenza contro le donne, tenendo conto dei recenti fatti di cronaca francesi, pubblicherà “Reporting on Rape, Changing the Narrative“, un documento fondamentale per i media e per il linguaggio che essi dovranno adottare nel parlare di violenza. 

«Il modo in cui i media riportano la violenza contro le donne e le ragazze ha conseguenze nella vita reale che plasmano i nostri atteggiamenti e le nostre convinzioni collettive sulla violenza stessa», afferma Andrea Simon, direttore esecutivo di Evaw. «Un giornalismo scadente rafforza la tendenza a incolpare le vittime, stereotipi dannosi e atteggiamenti che tollerano e normalizzano lo stupro. Un buon giornalismo può aiutare ad affrontare questi atteggiamenti e a guidare il cambiamento. Le donne non si fanno avanti perché non si aspettano di essere credute, e ciò passa anche attraverso il giornalismo».

Il documento Evaw si basa sull’analisi di dodici anni di segnalazioni di stupro sulla stampa britannica dal 2008 al 2019, pubblicato l’anno scorso e condotto da Alessia Tranchese, docente di comunicazione e linguistica applicata presso l’Università di Portsmouth. Tranchese descrive come siano lo stupro violento e lo stupro da parte di una persona estranea, «deviante», a dominare la copertura mediatica. Eppure, nel novanta per cento dei casi di violenza sessuale, la vittima conosce l’autore e una volta su tre viene violentata nella propria casa.

«Sappiamo che i giornalisti spesso si trovano sotto pressione per produrre grandi quantità di contenuti, ma abbiamo bisogno che ci sia maggior attenzione al linguaggio utilizzato. Ad esempio, l’uso di “presunto” – come in presunto stupro, presunta vittima, che implica un dubbio – potrebbe essere sostituito con il neutro “segnalato”», conclude Simon.

A pochi giorni dall’inizio del processo Pelicot, aveva fatto scandalo proprio il titolo di un articolo del quotidiano britannico The Telegraph, poi subito modificato: “Moglie si vendica pubblicamente degli uomini che, su ordine del marito, l’hanno stuprata per anni”. Nel divario tra “vendetta” e “giustizia” prolifera tutta quanta la misoginia che pervade non solo episodi di violenza sessuale simili a quello di Mazan, ma anche le narrazioni di questi ultimi. E in questa distanza si colloca quel novantaquattro per cento di vittime di stupri che non denuncia

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