IsovihaIl più grande massacro nella storia della Finlandia, e la brutalità della Russia zarista

Durante l’occupazione delle truppe di Pietro “Il Grande”, tra il 1714 e il 1721, il popolo nordico (all’epoca sotto la corona svedese) ha conosciuto la violenza e la crudeltà dell’imperialismo di Mosca

Dipinto di Eero Järnefelt, 1893 | Wikimedia Commons

Le truppe di Pietro il Grande sbarcano nella notte nel piccolo villaggio di Hailuoto, un’isoletta nel Golfo di Botnia che separa Finlandia e Svezia. Gli abitanti sono indifesi, pacifici, rurali. Non hanno strumenti né capacità per difendersi. Le asce dei cosacchi si abbattono fameliche su uomini, donne e bambini. Giovani e anziani. Madri e figli. Alle prime luci del mattino la popolazione di Hailuoto è sterminata. Ottocento vittime in poche ore. Sull’isola dell’Ostrobotnia Settentrionale, dopo quel 21 settembre 1714, non resta più niente. Solo desolazione, campi distrutti, case sfasciate, l’odore mefitico della morte.

Il massacro di Hailuoto è una delle pagine più buie della storia della Finlandia. Le fonti e le testimonianze dell’epoca presentano ancora molti punti ciechi, ma tutte le ricostruzioni concordano nel definirla una strage inumana e brutale. Le informazioni si basano perlopiù su storie tramandate di generazione in generazione per decenni, con tutti i bias e i buchi di narrazione che si possono immaginare. In alcune versioni i cosacchi inseguono dei fuggitivi provenienti dalla terraferma attraccando quasi casualmente ad Hailuoto, in altre si parla di un attacco voluto e pianificato. Si dice anche che una famiglia sia sopravvissuta alla devastazione perché costretta a seppellire le vittime, ma in un’altra versione i corpi delle vittime sono stati gettati in mare. E non ci sono documenti né reperti che testimoniano con precisione le ottocento vittime di quella notte.

All’inizio del Settecento la Finlandia è una provincia del Regno di Svezia, un pezzo di terra su cui si sta combattendo dall’inizio del secolo la Grande Guerra del Nord con la Russia (1700-1721). Alla fine del 1713 lo zar Pietro I “Il Grande” vuole lucrare al massimo sulla recente vittoria militare che gli ha dato il controllo delle acque in quella regione. Quindi il passo successivo: dà alle sue truppe l’ordine di radere al suolo gran parte del territorio finlandese, a partire proprio dall’Ostrobotnia settentrionale. Vuole renderla una landa desolata e invivibile. Deve essere perfino difficile attraversarla: devastando il paesaggio e i villaggi diventa impossibile per l’esercito svedese riconquistare terreno in Finlandia del nord, e così non può riposizionarsi, riarmarsi, minacciare l’impero zarista via terra.

Gli eventi successivi a quell’ordine danno vita al peggior massacro nella storia finlandese. All’epoca non c’era il termine adatto per definire stragi di quella portata. I finlandesi lo avrebbero chiamato, nei decenni successivi, Isoviha, traducibile come la grande ira, o la grande collera. Oggi parleremmo di genocidio. È la distruzione di un gruppo etnico attraverso lo sterminio delle persone e della loro presenza storica e culturale in un territorio. È un atto sistematico, intenzionale, totale. Il termine Isoviha si ritrova per la prima volta in un sermone con cui il reverendo Thomas Stenbäck, nel 1770, avrebbe dato l’estrema unzione a una donna, Marjatta Heikintytär Puusti, morta all’età di novantacinque anni, dopo essere sfuggita alle torture dei cosacchi.

Durante i primi anni di occupazione russa, fino alla pace di Uusikaupunki del 30 agosto 1721, circa cinquantamila o sessantamila finlandesi sono costretti alla fuga o deportati in Russia, o vengono uccisi. Sono numeri enormi per una popolazione di appena quattrocentomila persone (anche qui le stime variano tra fonti diverse). Oulu e Raahe diventano città fantasma tra il 1715 e il 1717. La Finlandia si svuota.

Soprattutto nei primi tre anni di occupazione, fino al 1717, migliaia di persone vengono torturate e violentate, accecate, arse vive o costrette alla fame. Nei primi anni dell’Isoviha tra i finlandesi nasce il concetto di piilopirtti, sono baite nascoste nelle foreste, capanne rifugio che offrono riparo a chi riesce a fuggire dalle persecuzioni. Alcuni ci restano per mesi, forse anni (ancora oggi, chi può, in Finlandia sceglie di trascorrere l’estate o le ferie in una delle milioni di baite nei boschi, una tana tranquilla e lontana da tutto, un’abitudine sedimentata nel tempo che somiglia a un autoisolamento).

Nelle città più grandi e nei principali villaggi viene saccheggiata ogni casa, incendiata ogni fattoria, devastati tutti i campi. Per le strade ci sono corpi ovunque. Non c’è freno alla brutalità dei russi. Madri e padri dei villaggi finlandesi vengono torturati di fronte ai loro figli e viceversa. Cittadini appesi per i polsi con le mani dietro la schiena esposti a temperature gelide; contadini frustati nudi in mezzo alla neve, con la schiena bruciata e gli occhi accecati con cenere ardente. Le torture sono all’ordine del giorno.

All’epoca gli eserciti erano spesso violenti nei confronti dei civili. Ma gli orrori di cui si sono macchiate le truppe russe sono incentivati dallo zar: la violenza è un mezzo per mantenere l’esercito, che per sostentarsi riceve poco o nulla dalla capitale ma ha mano libera per razziare le proprietà altrui lungo il cammino.

I finlandesi che riescono a salvarsi dai massacri sono quelli che possono a fuggire a Ovest, diventando sfollati interni nel Regno di Svezia: sono circa trentamila persone a lasciare casa e città per correre via. Altri lasciano la Finlandia solo come prigionieri. Dall’Ostrobotnia vengono portati in Russia circa quattromilaseicento civili, in tutto il Paese se ne contano più di diecimila – alcune fonti si spingono oltre i ventimila. I finlandesi rapiti diventano schiavi, anche i bambini. Alcuni finiscono a fare da scudieri delle truppe zariste in Finlandia, altri vengono portati in Russia e poi ancora in Crimea verso la Persia e il Medio Oriente, dove le persone bionde sono considerate esotiche.

Il gruppo più numeroso però è quello deportato e mandato a costruire la neonata San Pietroburgo (fondata proprio da Pietro “Il Grande” nel 1703). Il mito fondativo della città vuole che il 16 maggio 1703, in una zona paludosa e selvaggia, praticamente disabitata, dove il fiume Neva sfocia nel golfo di Finlandia, Pietro incide una croce sulla torba e dice: «Qui nascerà una città»; mentre parla, un’aquila appare in cielo in segno di buon auspicio. Diverse ricostruzioni storiche confutano questa tesi. Forse non c’è mai stata nemmeno l’aquila. È certo però che San Pietroburgo è stata costruita al costo di migliaia di vite, per la durezza delle condizioni climatiche e di lavoro che hanno fatto vittime ogni giorno. Più della torba e della palude, le fondamenta di San Pietroburgo poggiano sulle ossa e il sangue delle persone costrette a lavorare come schiavi fino alla morte, letteralmente (si parla di venticinquemila o trentamila morti).

A distanza di trecentodieci anni l’Isoviha è ancora uno dei momenti più cupi della storia finlandese. Ma il tempo rischia di obnubilare la realtà, di sfumarla o addolcirla. Ad esempio, gli storici finlandesi di metà Novecento tendevano a sminuire la portata di questo disastro umanitario. Solo nel XXI secolo, grazie in particolare al lavoro dello storico finlandese Kustaa H.J. Vilkuna – che ha studiato il periodo sulla base di più o meno tutte le sentenze, le lettere e i documenti esistenti –, quelle tesi vengono confutate o rimodellate. Anzi, grazie agli studi di Vilkuna emergono alcuni dettagli, in particolare sugli stupri e le violenze sui civili, dai tratti ancora più macabri di quelli che avevano rintracciato gli storici fino ai primi del Novecento.

In ogni caso, il periodo di occupazione russa della Finlandia va conosciuto e ricordato per quel che è: una guerra di annientamento senza scrupoli, un massacro crudele di cui anche i discendenti delle vittime conoscono forse troppo poco. Perché l’imperialismo russo che oggi vediamo in Ucraina, e quello che abbiamo visto nel 2008 in Georgia, e altrove prima ancora, è sempre lo stesso. È quello che all’inizio del diciottesimo secolo ha travolto la periferia orientale del Regno di Svezia con una brutalità con pochi paragoni.

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